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Joseph Stiglitz, “Il lato sbagliato della globalizzazione”


Tao
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Incisivo articolo ( http://opinionator.blogs.nytimes.com/2014/03/15/on-the-wrong-side-of-globalization/?_php=true&_type=blogs&_r=0 ) di Stiglitz, sul New York Times, circa gli accordi commerciali in via di negoziazione in segrete stanze e sui loro potenziali effetti negativi. Ma Stiglitz, in questo articolo va abbastanza oltre, criticando l’intera gestione della globalizzazione e la stessa teoria del libero commercio.

L’argomentazione è abbastanza semplice: gli accordi, negoziati non a caso in segreto, vertono in realtà sulla facoltà delle grandi aziende multinazionali di proteggere i loro potenziali profitti dalle norme ambientali, di sicurezza sul lavoro, o di protezione dai rischi finanziari. “L’armonizzazione normativa”, che dicono di perseguire, è chiaramente verso il basso, l’unico valore che sembra riconosciuto meritevole di tutela è il profitto.
A Stiglitz, la cosa ricorda la Guerra dell’Oppio, durante la quale le potenze occidentali costrinsero la Cina ad aprire i propri mercati alle droghe coltivate nelle piantagioni della Compagnia nella vicina India, in ossequio al principio del libero commercio e per proteggere i profitti della Corona. Da questo punto conclude avanzando una generale accusa alla Teoria del Libero Commercio (in effetti una delle più antiche controversie della storia dell’economia), ed ai suoi irrealistici presupposti impliciti.

Stiglitz accusa sostanzialmente i negoziati gli Accordi TPP, che sono iniziato nel 2010 e di cui avevamo già parlato qui, di far correre il rischio alla maggior parte degli americani di finire “dal lato sbagliato della globalizzazione”. Questi Accordi, oltre a “strappare il tessuto del Partito Democratico, legherebbero infatti 12 paesi lungo il Pacifico nella più grande zona di libero scambio al mondo.

Una delle cose più gravi è che si tengono sotto totale riserbo e sono soggetti ad un procedura di approvazione facilitata al Congresso (in pratica un “prendere o lasciare”). Tutto quel che si conosce, viene da bozze più o meno trapelate (nel link un sito Wikileaks). Il rischio è che, anche a causa di questa sospetta riservatezza, tutto andrà a esclusivo beneficio della “ricca scheggia della élite americana e mondiale”, contro tutti gli altri. Il motivo è che ormai non ci sono più tariffe da abbassare (infatti sono già irrilevanti) e quindi i negoziati hanno ad oggetto le altre barriere “non tariffarie”; sono queste ormai che fanno “gli affari costosi” per le grandi multinazionali. Di qui l’enfasi sulla “armonizzazione” (al ribasso) in favore del profitto. Il punto è che qui si parla solo del profitto delle grandi società sostanzialmente a danno dei beni pubblici tutelati dalle norme in oggetto (protezione dell’ambiente, del lavoro, della salute, della sicurezza). L’idea sembra essere di usare questo chiavistello per riposizionarsi nel mondo che c’era prima dell’ondata normativa degli anni sessanta e settanta. Specificatamente i punti critici sono la facoltà di accesso al Tribunale Internazionale, per mettere sotto accusa lo Stato di turno e le sue norme, quando una società internazionale che opera in esso reputa che il suo diritto a conseguire un legittimo profitto ne viene ferito (e qui, si capisce che nelle parole si può nascondere la differenza). Un settore in cui tale criterio potrebbe essere utilizzato è quello della vendita di prodotti potenzialmente pericolosi, come le sigarette, o coperti da brevetti, come i farmaci. Ancora: “un modo di leggere i documenti negoziali trapelati suggerisce che il TPP potrebbe rendere più facile per le banche americane vendere i derivati ​​a rischio in tutto il mondo; forse l’impostazione dello stesso tipo di crisi che ha portato alla Grande Recessione”.
Ancora una volta tornare all’ottocento è il sogno. Chi sostiene l’accordo utilizza teorie che Stiglitz denuncia come “false”, ma ancora in circolazione sostanzialmente perché “servono gli interessi dei ricchi” (sono quindi molto vantaggiose per chi le avanza e la sua organizzazione). Tra queste non esita a citare la comune teoria del “libero commercio” (cioè quella visione secondo la quale esso è sempre un bene); secondo la quale, anche se ci sono vincitori e vinti, non può essere un problema, perché il saldo è largamente positivo e ci sarà comunque modo di compensare i perdenti (con i sussidi di disoccupazione, o con altre politiche di risarcimento).
Questa antica teoria si basa su numerosi presupposti impliciti sbagliati: il primo è che che i lavoratori si possano muovere senza problemi tra i posti di lavoro (passando, ad esempio, dal settore della produzione tessile che si sposta in India, all’informatica avanzata che cresce per gestire il decentramento) e da settori a bassa produttività a settori ad alta. In sostanza l’idea implicita è che se un lavoratore resta disoccupato mentre opera in un settore poco produttivo (e quindi debole rispetto a una concorrenza estera che era sotto controllo solo grazie ai dazi), trova subito una nuova occasione, perché nel frattempo si formano nuove aziende ad alta produttività che lo assorbono. Ovviamente perché, non essendoci (nei modelli non c’è mai) disoccupazione, il nuovo imprenditore può rivolgersi solo a lui che è libero. Peccato che quando c’è, invece, un alto livello di disoccupazione la cosa vada in modo radicalmente diverso (ed oggi ci sono 20 milioni di disoccupati negli USA).
Ciò che succede, in realtà, è che il nuovo disoccupato si aggiunge semplicemente ai precedenti, e contribuisce ad alzare la pressione al ribasso sui salari. Da un “occupato a bassa produttività”, si passa a un disoccupato “a zero produttività”.

In queste condizioni, anche ideologiche, la “cattura” dei negoziatori (cioè dei funzionari di alto rango dei Ministeri competenti, normalmente solo quelli del commercio e dell’economia, e degli organismi internazionali preposti) da parte degli “interessi corporativi e finanziari” (per come li nomina Stiglitz) è più che probabile. Ancora più facile quando il processo democratico è silenziato e neutralizzato.

A questo punto Stiglitz porta il suo attacco finale: “Una delle ragioni per cui siamo così male è che abbiamo gestito male la globalizzazione”.
Sono state promosse “politiche economiche che incoraggiano l'outsourcing di posti di lavoro: merci prodotte all'estero con manodopera a basso costo possono essere riportate a buon mercato negli Stati Uniti”. In questo modo i lavoratori americani capiscono molto bene, e sulla loro pelle, che ora devono competere con quelli esteri; quindi l’effetto principale è che il loro potere contrattuale è indebolito. “Questo è uno dei motivi per cui il reddito reale medio dei lavoratori di sesso maschile a tempo pieno è più basso di quanto non fosse 40 anni fa”.

C’è di peggio: oltre ai salari sono tagliate anche le tasse e le spese pubbliche, per garantire la “competitività” dell’America. Chiaramente sono tagliati i programmi che vanno a beneficio dei cittadini. I difensori di quest’assetto dicono che “dobbiamo accettare il dolore a breve termine, dicono, perché nel lungo periodo, tutti traggano vantaggio. Ma, come John Maynard Keynes disse in un altro contesto, <nel>”.

Per fortuna, dice Stiglitz, i numerosi critici (tra cui il Leader Democratico al Senato, Harry Reid) del TPP, sia negli USA come in Asia, hanno per ora prevalso portando in stallo il negoziato. Ma “c'è una guerra più ampia al fine di garantire che la politica commerciale - e la globalizzazione, più in generale - sia riprogettata in modo da aumentare gli standard di vita della maggior parte degli americani”.

Alessandro Visalli
Fonte: http://tempofertile.blogspot.it/
16.03.2014


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