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Pigs, i ‘maiali’ del Mediterraneo


Tao
 Tao
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Il giornalismo scritto si è ormai riempito di sigle ed acronimi. È uno dei modi per distinguersi da quello televisivo, più veloce ma meno approfondito: dietro brevi iniziali sta infatti concentrato tutto un ragionamento. Una formula usata per descrivere i paesi che hanno messo in crisi l’Euro è PIGS (Portogallo, Italia, Grecia, Spagna), in inglese: maiali. Si sottintende così che i meridionali dell’Euro si sono comportati da suini (o da “cicale”, le cui iniziali però non si prestano), mangiandosi subito quanto era a tiro, senza pensare al domani. Di fronte alle devastazioni prodotte dal libero mercato molti hanno invocato un ritorno a Marx. Ma la crisi dell’Euro rende ancor più attuale l’altro grande teorico della società capitalista, Max Weber. Per Marx l’economia è la struttura – latente anche quando non visibile – della società: il resto, religione inclusa, è sovrastruttura, formazione secondaria. Per Weber, al contrario, è in gran parte la religione a determinare la cultura su cui cresce l’economia. Nell’Europa ricca ha apparentemente perso gran parte del suo ruolo. Eppure, anche la società postmoderna viene da lontano e il ragionamento di Weber rimane assolutamente attuale. Persino quello che possiamo vedere in paesi precapitalisti ce ne offre conferma. Da molti anni leggiamo che la Somalia ha il primato mondiale di ingovernabilità e di violenza: il territorio è conteso tra bande paramilitari e gruppi di estremisti islamici. Solo nella piccola porzione settentrionale, chiamata Somaliland (che infatti vorrebbe separasi dalla Somalia), le strutture pubbliche funzionano e si tengono addirittura elezioni democratiche: un evento così straordinario che la International Herald Tribune gli ha dedicato metà prima pagina (25/6/2010). La Somalia è indipendente da mezzo secolo. Prima era colonia italiana, con l’eccezione della fascia settentrionale. I nostri poteri pubblici si sono dimostrati impotenti di fronte alla corruzione di grandi istituzioni nazionali: da quella colonia si sono semplicemente ritirati senza crearvi una cultura dello Stato, e tantomeno un culto delle sue istituzioni. Il Somaliland era invece colonia britannica: dopo due generazioni, in cui ha fatto parte della Somalia, la solidità degli organi pubblici e delle tradizioni lasciate dagli inglesi fa ancora tutta la differenza.

Le cose che hanno in comune

TORNIAMO ai quattro “paesi maiali”. Cos’hanno in comune? Tre sono mediterranei, ma anche il Portogallo atlantico costituisce un prolungamento di questa unità. Un grande storico, Fernand Braudel, ha studiato proprio il Mediterraneo come un unico paese, che contiene infinite ricchezze culturali insieme a invincibili tradizionalismi e “inamovibilità”. Tre dei paesi sono cattolici, mentre la Grecia è ortodossa. Nel mondo greco-romano, la Chiesa ortodossa rifiutò quella cattolica non per inventare una strada nuova, ma perché Roma accettava troppi compromessi con la modernità (la pittura delle icone, per esempio, rifiutò la crescente presenza delle figure umane dei quadri rinascimentali, conservando nello sfondo solo l’oro, simbolo dell’assoluto e dell’immutabile). Insomma, ciò che questi quattro hanno in comune non solo prevale su ciò che li differenzia: quello che li unisce è proprio un inconscio culto della splendida antichità, che di fatto corrisponde a un baricentro situato nel passato. Se oggi questi paesi hanno istituzioni democratiche e spesso sono governati da coalizioni progressiste, nessuno dimentica che nel secolo ventesimo tutti e quattro hanno subìto dittature “fasciste”. Indirettamente, le conseguenze sono per esempio visibili in uno strisciante maschilismo, nelle poche donne impegnate in politica (rispetto all’Europa del Nord), in un certo culto della forza e del “ti faccio vedere io”. Da più di mezzo millennio, l’ingresso dell’America sullo scenario del mondo ha lentamente ridotto il Mediterraneo a entroterra semicoloniale del Nord Europa (nel secolo XX anche degli Stati Uniti). Contemporaneamente, la Riforma Protestante ha anticipato la modernità e i diritti dell’individuo, riducendo il cattolicesimo a religione di quelle acque ripiegate verso il passato. Circa un secolo fa, Weber studiò i rapporti tra religione ed economia, chiarendo come il capitalismo moderno si sviluppi sul terreno preparato dal protestantesimo puritano: l’importanza dell’individuo, delle sue libertà e delle sue responsabilità. Il secondo contributo weberiano che ci interessa è la distinzione fra due orientamenti morali: l’“etica delle convinzioni” ed l’“etica della responsabilità”. Il seguace della prima pensa che la cosa più importante sia seguire i princìpi. Non si sente responsabile se la maggioranza della società li ignora e si lascia condurre in direzione opposta. Il rappresentante della seconda cerca invece di tenere in conto, fin dove siano prevedibili, le conseguenze reali delle proprie scelte. Seguendo le convinzioni, un sindacalista potrà proclamare uno sciopero quando è intimamente convinto della giustezza delle rivendicazioni su cui si basa: anche se lo sciopero stesso può offrire a movimenti reazionari dei pretesti per intervenire e prender il potere. Similmente, una autorità religiosa può vietare metodi anticoncezionali perché teme che uomini e donne, liberati dalla preoccupazione di gravidanze, ricerchino il piacere sessuale in sé: anche se, nei fatti, questa proibizione favorirà la diffusione di certe malattie e la nascita di troppi bambini, cui mancheranno cibo e affetto.

Tra calcolo ed emozione

E’ EVIDENTE come l’etica delle convinzioni sia centrale nella fede dell’Europa mediterranea: e, non a caso, anche dei partiti marxisti-monoteisti (impostati proprio sul modello della verità assoluta) che ne sono stati spesso un prolungamento. Come Sant’Agostino, l’etica delle convinzioni esorta ad amare appassionatamente una verità e non fare troppi calcoli sul futuro. Questo atteggiamento racchiude una intuizione psicologica forte. Infatti, tenendo troppo in conto quel che accadrà nel futuro e spingendo le previsioni sempre più lontano, l’uomo rischia di perdere in emozione ciò che acquista nel calcolo: e la ricerca di giustizia dovrebbe sempre combinare razionalità e passione. Per questo noi europei del Sud ci sentiamo spesso irritati di fronte ai puntigliosi ammonimenti dei parenti del Nord. Non in-fondatamente, vi avvertiamo segni di arroganza, di moralismo, di avarizia. Temiamo che il primato del futuro renda troppo pronti ai compromessi nel presente, e che questo indebolisca i valori fondamentali. Il protestantesimo, dominante nell’Europa del Nord, ha invece insegnato per secoli ad assumersi le responsabilità personalmente: la confessione non si fa con un sacerdote (che di regola assolve) ma è un dialogo diretto con Dio. Questo ha predisposto a scelte variabili senza dogmi, a politiche laiche, a forme di socialismo pragmatiche. Di fatto, la programmazione, l’economia, la reciproca dipendenza finanziaria sono la spina dorsale del mondo in cui viviamo: queste condizioni premiano proprio quella pedanteria che ci irrita, che ci produce quasi un fastidio estetico. La sopravvivenza dei figli e dell’ambiente è affidata sempre più alla formica che dorme in noi. In passato, un re poteva trascinare un paese nella guerra per una questione di orgoglio dinastico. Poiché la massa umana è limitatamente saggia e illimitatamente emotiva, era spesso più facile convincerla allora a seguirlo nel precipizio che indurla oggi ai sacrifici imposti da istituzioni finanziarie.

La cosmesi finanziaria

TUTTI sanno che i politici tendono a limitare i loro programmi a un futuro in cui sperano di essere rieletti e non più in là. Proprio per superare questo limite temporale, la Germania ha inserito l’obbligo di avere il bilancio nazionale in pareggio nella costituzione (siccome ogni nuova legge deve uniformarsi ad essa, anche il futuro è in questo modo corazzato contro gli spendaccioni): e in
Francia si propone addirittura di iscrivere nella costituzione l’obbligo della riduzione dei deficit. Nel frattempo, più a Sud si sottopongono i bilanci a chirurgia estetica: ma, proprio come il bisturi non riduce l’età della pancia, così la cosmesi finanziaria non riduce il debito. I politici greci hanno fatto, in ogni senso, carte false pur di entrare nell’Euro. Con l’Euro – moneta ricalcata sulle valute del Nord Europa, soprattutto sul defunto marco tedesco – i paesi del Sud hanno ricevuto una temporanea trasfusione di stabilità, che a sua volta ha prodotto un temporaneo benessere. La Grecia ha ormai un reddito pro capite pari a tre quarti di quello della Germania: ma, nell’indice della Banca Mondiale che definisce l’ambiente adatto alle attività economiche, sta oltre il centesimo posto, dopo molti paesi africani. La stessa Grecia dedica un astronomico 2,8% del reddito nazionale alle Forze Armate, la percentuale più alta di tutta Europa: la sua nuova borghesia vive nella finanza del XXI secolo, ma il suo immaginario collettivo – l’emozione sotterranea che spinge la politica – è rimasto nel secolo XIX, quando sopravvivere voleva dire combattere a morte coi turchi.

Anche con l’Euro, l’inconscio collettivo mediterraneo ha continuato a usare la lira italiana , la dracma greca, la peseta spagnola. I cittadini (soprattutto i ceti medi e alti) hanno continuato a evadere il fisco molto più che nel Nord Europa. I governanti, a tappare i conseguenti buchi con prestiti e acrobazie. E tutti, abituati a lasciarsi portare dalle spirali dell’inflazione, ad arrotondare al rialzo i prezzi appena possibile. L’esperienza diceva che, un giorno o l’altro, i conti tornano: prima o poi, nei decenni passati, si produceva infatti una svalutazione, detta anche “tassa sui poveri” perché riduce il valore reale dei salari fissi. Attraverso di essa tutti i prezzi di un paese (espressi in monete stabili) si abbassavano: per gli europei del Nord, un prodotto italiano o una vacanza in Grecia tornavano ad esser convenienti. Ora, le monete nazionali sono scomparse nell’Euro: non si può più svalutare. Far vacanza in Grecia può costare quanto in Svizzera. Le fabbriche italiane faticano a competere da una parte coi prezzi dell’Asia, dall’altra con la qualità della Germania (dove i prezzi non crescono: per il trauma della svalutazione degli anni trenta che portò al potere Hitler e addirittura per costituzione, la lotta all’inflazione è una “pratica religiosa di bilancio”). La nuova “tassa” scaricata sui ceti deboli si chiama chiusura degli impianti. Per affrontare questo squilibrio economico – e diffondere nel meridione d’Europa un’etica della responsabilità – sarebbe necessaria una lunga educazione. Si dovrebbe iniziare dalla base: per esempio, con campagne contro i “piccoli” aumenti dei prezzi da parte di commercianti, professionisti, artigiani. Ma non si vede niente di simile. Gli uomini della strada, e i populisti che li assecondano a circolo vizioso, sono pronti ad accusare le norme di Bruxelles o di Francoforte. L’attribuzione delle responsabilità è una parte naturale dei processi mentali: ma in società in cui manca da secoli l’etica corrispondente la soluzione più facile è proiettarla all’esterno, e il più lontano possibile.

Luigi Zoja (*) psicoanalista e scrittore
Fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it/
24.08.2010


Citazione
dana74
Illustrious Member
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l'unica tassa che viene scaricata sui deboli si chiama debito pubblico, una schiavitù perenne che giornali come questo santificano e ne professano una devozione assoluta, non mettendolo mai in discussione come "appropriazione indebita", una convenzione molto utile alle banche


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