Come ci manipolano....
 
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Come ci manipolano. Jesse Owens e le Olimpiadi di Berlino: un esempio da manuale.


BrunoWald
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Benché l’uomo moderno guardi con sufficienza al passato, illudendosi di essere più libero e informato dei suoi antenati, l’umanità non è mai stata tanto ingannata e manipolata come oggi, e non solo per via delle sofisticate tecnologie a disposizione del potere, ma perchè gli attuali dominanti agiscono nell’ombra, senza mai apparire, sicché la mistificazione è un elemento fondante del potere, la sua venefica linfa vitale. La menzogna permea ogni ambito della nostra civiltà, dalla storia alla politica, alla religione, all’economia, alla scienza, in una colossale ragnatela di illusioni e falsità, una grande rappresentazione nella quale siamo immersi, inconsapevoli e passivi, come i prigionieri della caverna platonica.

Una sistematica presa in giro del genere umano, commissionata dalle élite che dominano il pianeta a legioni di specialisti: analisti, giornalisti, psicologi e sociologi stipendiati da università e fondazioni private, produttori televisivi e cinematografici, artisti di regime come i divi di Hollywood, “creativi” della pubblicità, ecc. Un enorme esercito di mentitori professionali, la cui unica missione è quella di impedirci di percepire la realtà, mantenendoci in uno stato simile all’ipnosi.

In questo articolo mi occuperò di un caso concreto di manipolazione operata ai danni di milioni di ingenui, in uno dei grandi capolavori della propaganda aschenazita ispirata alla scuola di Edward Bernays, nipote di Freud. Dalla teoria alla pratica.

Racconta la vulgata che le Olimpiadi di Berlino del 1936 furono usate dal regime hitleriano per la glorificazione del nazismo. In realtà, tutti i paesi organizzatori di una olimpiade utilizzano tale evento a fini propagandistici, aperti o dissimulati. Quando fu il turno dei nazionalsocialisti, questi ovviamente non si fecero sfuggire l’opportunità di celebrare se stessi nonchè la rinascita della nazione tedesca che, dopo anni di miserie morali e materiali, stava riacquistando coesione e fiducia nel proprio futuro.

Fin da bambini, siamo stati abituati ad aspettarci che in ogni favola ci sia sempre un eroe senza macchia e senza paura che, da solo, affronta e sconfigge i malvagi: figuriamoci in questo caso, nel quale ci troviamo di fronte nientemeno che al Male Assoluto! L’Eroe in questione, naturalmente, sarebbe stato il velocista afroamericano Jesse Owens il quale, vincendo quattro medaglie d’oro olimpiche, avrebbe “sconfitto i nazisti” smentendo le loro teorie sulla superiorità della razza ariana e provocando le ire del Führer, il quale si sarebbe rifiutato di dargli la mano e avrebbe lasciato, furente, lo stadio. Logico: cos’altro ti aspetteresti da un folle malvagio che per giunta, in quanto razzista, dev’essere senz’altro un essere umano odioso e meschino?

Che si tratti di panzane lo si capisce subito da numerosi indizi, se si è solo un pò svegli. In primis, all’epoca il razzismo – in particolare verso i negri – non era certo una prerogativa dei “nazisti”, ma bensì un sentimento comune alla quasi totalità degli occidentali, e fra inglesi e americani con una virulenza sconosciuta altrove. In secondo luogo, solo un superficiale potrebbe credere che tale sentimento di superiorità razziale, dato per scontato dai più, potesse basarsi su rozzi parametri fisici ed essere intaccato dal fatto che un atleta nero si rivelasse più veloce di uno bianco o giallo. Infine, ad un evento olimpico partecipano atleti di tutti i paesi e di tutte le razze con centinaia di medaglie in palio, e nessuno potrebbe immaginare di vincerle tutte, o che atleti del paese A o della etnia B non ne vincano qualcuna. In ogni caso, nel 1936 la Germania fu il paese che vinse il maggior numero di medaglie, tanto riguardo agli ori come al medagliere totale, e complessivamente l’organizzazione delle Olimpiadi rappresentò un notevole successo d’immagine per la nazione e e per il regime.

Ma stiamo ancora girando intorno al vero nocciolo della questione. In effetti, oltre che un grande atleta, Jesse Owens un eroe lo fu davvero, dal momento che smentì personalmente le suddette menzogne, e benchè le sue parole siano state soffocate da una cortina di silenzio, la sua sincerità gli fa comunque onore: grazie a lui, infatti, sappiamo per certo che tutta questa storia non fu che una grossolana montatura propagandistica.

Owens infatti manifestò in varie opportunità il suo disagio per la leggenda costruita sul suo conto dai mass media, e come diretto interessato dette una versione completamente diversa: egli rivelò infatti che quando passò davanti alla tribuna d’onore, dopo la premiazione, «il Cancelliere (ossia Hitler) si alzó in piedi e mi salutó con un cenno della mano, ed io risposi al suo saluto. Penso che gli scrittori abbiano mostrato cattivo gusto nel criticare l’uomo del momento in Germania.» (When I passed the Chancellor he arose, waved his hand at me, and I waved back at him. I think the writers showed bad taste in criticizing the man of the hour in Germany.)

Persino un odiatore del Terzo Reich come il giornalista americano William Shirer, presente alle Olimpiadi e testimone oculare, scrisse al riguardo: «Owens fu compiaciuto del gesto che Hitler gli rivolse dopo la corsa. Ha dichiarato: “La cosa mi colpisce, egli è un buon sportivo. Mi piace il suo sorriso”»! (Hitler’s salute to him after the race pleased Owens. He said: “It strikes me, he’s a good sport. I like his smile”.)[1]

In altra occasione, il campione statunitense rincarò la dose: «Hitler non mi ha snobbato. Chi mi ha snobbato è stato Franklin Delano Roosevelt. Il presidente non mi ha spedito neppure un telegramma». (“Hitler didn't snub me – it was FDR who snubbed me. The president didn't even send me a telegram.”)[2] Fu solo vent’anni dopo, durante la presidenza di Eisenhower, che Owens ricevette un’onorificenza dal governo del suo paese. Il motivo di tale indecente trattamento è chiarissimo, come spiegato dallo stesso campione:

«Quando sono tornato al mio paese natale, dopo tutte le storie su Hitler, non avrei potuto viaggiare nella parte anteriore di un autobus. Dovevo andare alla porta posteriore. Non avrei potuto vivere dove volevo. Non venni invitato a stringere la mano di Hitler, ma non sono stato invitato neppure alla Casa Bianca, a stringere la mano del presidente». (When I came back to my native country, after all the stories about Hitler, I couldn’t ride in the front of the bus. I had to go to the back door. I couldn’t live where I wanted. I wasn’t invited to shake hands with Hitler, but I wasn’t invited to the White House to shake hands with the President, either.)[3]

Ricapitolando: il demoniaco dittatore nazista si alzó in piedi per salutare amichevolmente il vittorioso atleta afro-americano, mentre il Paladino della Democrazia Roosevelt (l’eroe di Magaldi...), il presidente del suo stesso paese, per il quale aveva appena vinto 4 ori olimpici, non si degnò nemmeno di fargli inviare un telegramma dalla sua segretaria! Non è grandioso? Aggiungiamoci che nel Regno del Male, durante le Olimpiadi, Owens e gli altri atleti di colore poterono allenarsi insieme ai bianchi e risiedere negli stessi alberghi, dove furono trattati come principi, mentre a casa loro – nel sedicente Paese della Libertà – dovevano accontentarsi di alberghi per “niggers”, non potevano abitare nei quartieri dei bianchi e nemmeno entrare negli stessi cinema.

E tuttavia, per decenni ci hanno raccontato la favola del cattivo razzista Hitler che non strinse la mano a Owens. Pazzesco! L’immaginario di miliardi di persone viene plasmato da una banda di astuti cazzari. Ai nostri giorni è la stessa cosa, cambiano i dettagli ma il copione è sempre quello: il sistematico capovolgimento della realtà operato dai media occidentali, che sono i più grandi istigatori di odio a livello planetario. Si denigra l’avversario di turno attribuendogli le proprie tare e le proprie intenzioni, agendo sulla sfera emotiva del pubblico per indurlo a odiare senza troppo riflettere, in vista dei futuri conflitti. Ma la colpa non è dei cazzari, i quali fanno soltanto il loro sporco mestiere: la colpa è nostra, che siamo così arrendevoli, così passivamente disposti a lasciarci infinocchiare, a berci qualunque panzana senza mai indagare, senza un minimo di senso critico.

 

[1] Jeremy Schaap, “Triumph. The untold story of Jesse Owens and Hitler’s Olympics”, New York, 2007. Pag. 193

[2] http://en.wikipedia.org/wiki/Jesse_Owens

[3] http://espn.go.com/sportscentury/features/00016393.html

Questa argomento è stata modificata 8 mesi fa da BrunoWald

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Martin
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Ottimo Bruno, personalmente gia' sapevo della manipolazione. E' una delle tante: un' altra esponenziale fu la  divulgazione negli USA della mappa nella quale l' America Latina veniva risistemata dai Nazisti. La mappa sposto' buona parte della pubblica opinione americana, fino a quel momento in maggioranza non interventista, ed il guerrafondaio Roosevelt ci vinse su l'elezione del 1940 (la terza consecutiva) contro il Repubblicano Wilkie.

Poi dopo la WW2 e' emerso - ed e' indiscusso - che la mappa fu una invenzione, un falso dei servizi britannici. Ma fa lo stesso....


BrunoWald e sarah hanno apprezzato
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PietroGE
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Franklin D. Roosevelt non si congratulò mai con Owens, né lo invitò [e nessun altro atleta afroamericano] alla Casa Bianca dopo le Olimpiadi di Berlino.

Ricordo che al tempo c'erano i cosiddetti 'hanging party' , per chi sa cosa vuol dire, negli USA e in particolare nel Sud del Paese. 

Da ricordare anche il film geniale, per i contenuti tecnici e spettacolari, sulle Olimpiadi del 1936 da parte di Leni Riefenstahl.


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sarah
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Si può dire che J. Owens sia un ottimo esempio di "corpo politico". Un corpo, inteso proprio come corpo umano, diventa "politico" quando in sostanza si fa portatore di uno o più messaggi di carattere generale e astratto. Il messaggio attribuito a questo atleta non vuole essere soltanto quello di negare la superiorità fisica della "raz za bianca" ma intende simboleggiare il primato morale della civiltà pragmatica, protestante e anglo sassone sulla barbarie altrui. Nelle intenzioni di chi ha propagandato questa immagine il fatto che egli stesso fosse oggetto di discriminazioni è paradossalmente poco rilevante in quanto lo inserisce in un ipotetico processo di "autoredenzione" della società americana. Come dire, non c'è nulla da rimproverarsi davvero perché tutto era parte di un lungo cammino che è sempre stato perfetto in sé. L'americano, l'uomo nuovo quale è convinto di essere, non subisce sconfitte né accetta critiche e si crede perfettamente in grado di rimuovere qualunque ostacolo si frapponga tra lui e la "perfezione" soprattutto morale. A mio avviso, questo sì che rischia di essere un concetto - chiave del razzismo poiché automaticamente disumanizza chi non condivide il grandioso progetto. Lucien Sfez, sociologo alla Sorbona di Parigi, scriveva in un suo breve saggio del 1999 che "non importa che tu sia davvero anglosassone o che tu provenga dalla Patagonia, ciò che conta è l'adesione incondizionata ai principi fondanti della società nuova, fatta dagli uomini nuovi". Questa è tuttora un'ottima chiave di lettura del presente, di questo presente tragico nel quale vengono alla luce i limiti di tale visione del mondo, creando frustrazione in chi l'ha professata per decenni ( in realtà almeno due secoli ) e provocando reazioni scomposte che ora predicano morte e sacrificio pur di salvare la baracca. Allora si era alla vigilia di una guerra, oggi chissà ma la confusione è grande. 


BrunoWald e oriundo2006 hanno apprezzato
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