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Il punto di vista della mosca


GioCo
Noble Member
Registrato: 2 anni fa
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Dovrei iniziare questo articolo con qualcosa tipo "tanto tanto tempo fa ...", ma questo vi insospettirebbe e giustamente, dal momento che le mie intenzioni potrebbero apparirvi poco chiare.

Come sapete, non ci tengo troppo a rimanere nei binari del tipico (rassicurante) discorso, ma preferisco fornire spunti di riflessione non comuni.

Tuttavia è necessario costruire una serie di "antefatti" per introdurre quanto sto per scrivere, diciamo che ho bisogno che "facciate finta che" (così stiamo tutti più tranquilli) "tanto tanto tempo fa" un uomo molto saggio raccontò ai suoi discepoli qualcosa di "strano". Ovviamente nulla di ciò che segue è da considerare "vero", leggetela come una favoletta.

Il vecchio si accomodò sui cuscini logori sistemantosi i poveri stracci (puliti) di cui si vestiva con modi volutamente affettati, manco dovesse recitare la parte del gran visir di una favola teatrale, quindi si schiari la voce come per dire qualcosa di molto importante. I presenti che sapevano quanto di solito era severo, cercarono di nasconodere i sorrisi perché avevano per lui un profondo rispetto e non volevano ridergli in faccia, tuttavia era impossibile trattenersi e in fondo sembrava proprio lo stesse facendo apposta. "Ieri ho ammazzato una mosca", iniziò in modo insolitamente brusco il saggio, tanto che nonostante la frase apparisse bizzarra oltre misura i presenti ripresero contegno in attesa di ricevere la consueta lezione di saggezza. Poi aggiunse fingendo di togliersi un pelo dagli stracci: "che schifo". A quel punto qualcuno non riuscì a trattanersi e fu seguito a stretto giro dal vecchio che iniziò ridere di gusto con loro. Sembrava proprio che quella giornata dovesse passare così, in modo più informale rispetto il solito. Poi il vecchio si fece serio, di nuovo "all'improvviso". Li guardò con i suoi occhi profondi, scuri e severi eppure così paterni e comprensivi, tanto che con calma uno a uno tutti i visi tornarono a farsi seri. Allora disse con tono grave: "però non ero la mosca, perché se fossi stato la mosca, la morte mi avrebbe colto all'improvviso". Poi fece un lungo respiro e aggiunse: "alcuni uomini credono che occorra salvaguardare la vita in ogni sua forma, in quanto dono che abbiamo il compito di proteggere". Guardò in basso come per vergognarsi di quel che stava per dire e continò: "ma l'infinito da cui pure la vita proviene non sembra avere gran cura di questo suo dono". Lasciò cadere questa sua frase come un macigno e tutti sentirono un peso tremendo calare nell'animo, una tristezza come mai avevano avvertito prima. Il vecchio come ridestandosi li guardò di nuovo e sorrise facendo tornare subito in tutti un poco della allegria iniziale. "Per ciò", disse sornione miagolando le parole come un gatto che si stiracchia dopo un sonnellino, "a quale scopo veniamo al mondo?". Li guardò bene e nessuno osò fiatare. "Avanti", li invitò il vecchio fingendo di guardare le unghie di una mano come fosse tornato nei panni del nobile, "non preoccupatevi di quel che direte, sciogliete la lingua e ditemi: qual'è lo scopo?". Il più coraggioso provò a dire qualcosa ma con sua somma disdetta gli uscì solo un rantolo strozzato. Il vecchio lo guardò con profonda compassione e senza dargli modo di riprendere il controllo della voce aggiunse: "non vi preoccupate, non importa, non è necessario rispondere se ci accorgiamo di non essere padroni del nostro corpo, come la mosca infatti c'è sempre qualcosa di infinitamente più grande che battendo le mani può farci sparire in un istante e tutto ciò per noi rimarrà senza motivo". Uno dei presenti prese coraggio e disse tutto d'un fiato: "ma così non finiamo per giustificare ogni atto, anche malvagio?". Il vecchio tornò a sorridere come il gatto che balzato sulla preda che attendeva e rispose: "certamente, infatti la mosca la uccidiamo volentieri per questo, anche se ho il sospetto che se non mi fossi mosso la mosca sarebbe morta di colpo lo stesso nell'esatto punto dell'aria in cui lo uccisa con le mie mani e infatti adesso che mi ci fai pensare, ieri le mani non le ho proprio mosse". Li guardò di nuovo bene in viso e vendendoli turbati, allora aggiunse: "se anche non possiamo sapere chi o cosa domina la vita e perché, però sappiamo benissimo che siamo chiamati a dominare il nostro animo, eppure facciamo di tutto pur di dominare la vita al solo scopo di lasciare libero il nostro cuore che diventa così il nostro peggiore tiranno".

Ecco, volevo parlavi proprio di questo, cioé della speranza che muore con il tiranno. Ma ho dovuto prenderla un po' alla larga per ciò abbiate pazienza. Viviamo tempi in cui la speranza deve morire e c'è una ragione precisa per ucciderla. La speranza è il mediatore tecnico con cui forgiare una relazione felice e in armonia (cioè "innamorata") con il proprio contesto più allargato. Ovviamente non basta dal momento che è necessario abbinare anche l'umiltà e la pazienza per esercitarla in moto attivo, tuttavia è imprescindibile e (soprattutto) mentre l'umiltà e la pazienza possiamo coltivarla in solitudine (anzi spesso è proprio con esperienze di solitudine che si fissano dentro di noi queste virtù) la speranza funziona solo se condivisa, quindi è un sentimento (non un emozione) che dominiamo in parte perché sconfina nella relazione sociale e si riproduce per ciò esclusivamente come effetto contestuale.
Indovinate un po'? In quest'epoca la solitudine non è vista come una risorsa e di contro è "strano" trovare persone pazienti, senza aggiungere che ci sembra addirittura "bizzarro" trovare individui umili. Un colpo al cerchio e una alla botte, se siamo resi fragili interiormente non è certo perché abbiamo deciso di controbilanciare con la speranza. Quindi come educhiamo la nostra prole a gestirsi l'animo?

Prima di continuare vorrei ribadire come già fatto in altri interventi che l'umiltà non ha niente a che fare con l'umiliazione anche se l'umiliazione può essere un mezzo (mai un fine) per forgiare umiltà. Il punto è conoscere il proprio valore interiore indipendentemente dalla "provocazione" che il fato ci fa subire. Un conto è pensare di reagire allo stivale del despota calcato sul viso in modo fisico, un altro è agire dentro di noi per impedire che quell'atto significhi "umiliazione". Solo l'accordo lucido e cosciente al significato che vuole l'aguzzino ci priva della dignità. Se non spezziamo la nostra volontà di nostra iniziativa non c'è costrizione che possa farci sentire umiliati e l'aguzzino (se furbo abbastanza) lo sa benissimo. Per ciò nei lager nazisti ci dice Primo Levi che i primi a venire tolti di mezzo erano proprio quelli la cui volontà non si spezzava, perché poi l'esempio si propaga, diventa ingestibile e si trasforma in speranza. Il sacrificio quindi di chi non si pezza deve essere teatralizzato, perché non si uccide un individuo a quel punto, ma la volontà ribelle degli astanti "scampati" all'esecuzione. Costoro, che si sentiranno profondamente traditori (non già rispetto ai padri, ma verso se stessi) per il resto della vita proprio per questo non potranno in alcun modo alleviare il senso di colpa anche una volta riguadagnata la libertà e anche addossando tutta la responsabilità storica sugli aguzzini.

Noi crediamo fermamente di valere di più di una mosca. Ma se questo è vero per noi nei suoi confronti, perché non deve valere anche per chi si sente infinitamente superiore a noi? Perché non dovrebbe poi esserci qualcosa di effettivamente superiore che esercita la sua presenza con la stessa indifferenza con cui noi la esercitiamo con le mosche? Con Nietzsche iniziamo questa avventura allegorica sdoganando l'idea moderna di superuomo che prende in mano il suo proprio destino senza mai considerare veramente cosa stavamo prendendo in mano.

A ben vedere l'evidenza evidente ci dice che l'unica cosa che in concreto siamo riusciti a fare con le mani è masturbarci con tanto impegno e siccome dopo un po' ci si stanca, allora abbiamo costruito macchine per masturbarci meglio. Tutto qui. Che delusione. 🙁


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