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La fatica di stare nell'ignoranza


GioCo
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Spesso parlo di fatica e disagio, come coppie di termini per indicare un certo rapporto generalmente negativo con l'ambiente, cioè socialmente indesiderabile a meno che non si cada in forme particolari di significazione condivisa come il masochismo. Spesso ci riconosciamo in queste etichette, come il masochismo, ma è evidente che si tratta di condizioni molto circoscritte e che non intendono descrivere una media diffusa e condivisibile. Se vogliamo osservare come le persone tendono a sceglie, tra un film horror tipo "Nightmare - Dal profondo della notte" (1985) e un uno d'azione come "Indiana Jones e l'ultima crociata" (1989), basta guardare i numeri, ad esempio gli incassi al box-office: 25 milioni di dollari contro cica 780. Ma una scorsa alla lista dei più gettonati di sempre fuga ogni dubbio.

Cosa voglio dire? Che noi tendiamo a fuggire il disagio e la fatica, ma questo non è un atto d'accusa, solo un umile tentativo di chirare qualcosa che non capisco. Meglio, qualcosa che pensiamo di capire, ne siamo convinti, ma che a un analisi approfondita mi accorgo diamo per scontato nascondendo involontariamente in questo modo la nostra ignoranza.

Certo, sembra banale affermare che l'acqua è calda, ma quando ad esempio sgorga da una sorgente da cui non ti aspetti che divenga calda, magari da un momento all'altro, il sempilice affermare che l'acqua è calda cambia radicalmente la necessità di indagare, cambia l'orientamento della attenzione e la necessità di significazione. Quindi il contesto (e non il fenomeno) guida l'indagine e ha un peso sull'intensità della curiosità con cui ci chiniamo sul fenomeno. Il contesto è per me la relazione che si stabilisce con il fenomeno dal momento in cui mi accorgo che è significativo. Quindi osservare per me corrisponde a un esigenza innata di significare. Per ciò non mi preoccupo del Vero o del Falso, ma di capire perché certe relazioni risultano significative ed altre no, ad esempio perché viviamo in un oceano di relazioni che diamo per scontate nuotandoci dentro impassibili, oppure perché significhiamo e quindi concentriamo l'attenzione su ciò che non interessa la nostra specie? Pensiamo al cellulare, perché acquista un significato che va ben oltre un semplice mezzo di comunicazione? Perché (di contro) il fatto che il cielo sia buio di notte non ci incuriosisce neppure?

A questa paradossale quanto contro-intuitiva deduzione se ne aggiunge un altra se possibile anche più capace di stordire. Quando noi ci approssimiamo alla conoscenza di qualcosa, abbiamo tutto un bagaglio di sapere implicito che guida la comprensione. In quello che ormai chiamo cockpit (cabina di comando) dell'essere umano, si palesa per ciò una strumentazione straordinariamente sofisticata. La parte più incomprensibile (quella che nel libro che sto scrivendo chiamo "lato sinistro della cabina di pilotaggio") è quella che identifico con meta-comunicazione, atta a creare strumenti per comunicare. Questa strumentazione crea sia sofisticati sensori, che segnalano una certa attività ambientale, sia comandi che ci permettono di reagire rispetto l'attività di quei sensori.
Mettiamo ad esempio che un sensore ci dica qual'è la nostra altitudine e qual'è la posizione del veivolo rispetto a terra, informazioni che non possiamo dedurre semplicemente guardando fuori dal finestrino quando siamo a migliaia di metri da terra e magari al di sopra di un banco di nubi. Mettiamo che la posizione del veivolo è con il muso in alto e però l'altimetro ci indica che stiamo scendendo. Chiaramente è dovuto al peso e alla velocità ma anche alla densità relativa dell'aria. Tutti parametri che (supponiamo) non ho modo di verificare, non vedo perché non ho i sensori significativi per vedere.

Da qui bisogna poi detrarre un altro inghippo: questo ragionamento da per scontato che il sensore stia effettivamente registrando quello che sta accadendo. Ma il modo in cui può essere falsificato quel dato è molto ampio. Questo è l'aspetto di cui la scienza si è occupata di più, cioè avere una probabilità più alta possibile che il dato registrato sia corretto, indichi ciò che lo strumento ci si aspetta debba indicare. Noi però non possiamo esserne certi, nelle misure abituali che facciamo del mondo, abbiamo il dato e spesso dobbiamo fidarci di quello che stiamo misurando con la nostra strumentazione.

Tuttavia a me interessa meno questo aspetto, cioè la Verità. Mi interessa qualcosa che viene prima della misura stessa. Cioè quella meta-strumentazione interiore all'Uomo che gli permette di creare una certa sensibilità nervosa e poi i comandi per rispondere a quella attività sensibile. Perché se non conosco quella meta-struttura e il suo meta-processo, rischio di creare una sensibilità a casaccio e di conseguenza avere un governo casuale dei comportamenti che però all'atto pratico, tanto nell'agire che nel pensare, non posso più registrare come anomalo. Come dire che se ho una bussola viziata da un errore di forma, non avendo la possibilità di confrontarla con altre bussole se non con lo stesso vizio di forma, alla fine mi convinco che la bussola stia indicando correttamente la rotta, magari solo perché mi porta effettivamente dove devo andare. Potrebbe a questo punto venire in mente che per potermi accorgere del vizio di forma devo trovare una bussola che mi permetta di rendermi conto che tutte le altre sono sbagliate, ma se non la cerco, non la troverò mai, quindi cosa attiva la ricerca e perché a volte il processo (che è centrale per l'educazione) funziona ed altre no? Questo è quanto cerco di capire.

Per poter osservare un meccanismo di quel tipo, devo partire da una posizione socratica inflessibile: io so di non sapere. Ma cosa significa "sapere di non sapere"? Significa prima di tutto stare in uno speciale disagio e fatica, che NON è intellettuale o fisico, ma esclusivamente emotivo: stare nella consapevolezza della propria ignoranza inesauribile per costringere l'attenzione a spostarsi dove si trova l'oceano di certezze fasulle.

Ora, siccome non c'è molto che possiamo temere di più dell'ignoto, stare nell'ingoranza è di fatto la condizione più tremenda che possiamo chiedere al nostro sistema nervoso e timico. La prova di resistenza è per ciò un allenamento continuo al diagio e alla sofferenza.

Come dicono spesso scherzando gli amici che mi conscono meglio quando li torturo con le mie congetture: beata ignoranza.


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comedonchisciotte
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Preferisco Troisi ("Ricomincio da tre") a Socrate ("Una sola cosa so: so di non sapere"). Il primo nei momenti critici ritrova almeno tre certezze e riparte da quelle, il secondo basa un metodo su nessuna certezza.
Va forse ricordato Euclide, che su cinque postulati costruì la geometria.


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GioCo
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comedonchisciotte;239982 wrote: Preferisco Troisi ("Ricomincio da tre") a Socrate ("Una sola cosa so: so di non sapere"). Il primo nei momenti critici ritrova almeno tre certezze e riparte da quelle, il secondo basa un metodo su nessuna certezza.
Va forse ricordato Euclide, che su cinque postulati costruì la geometria.

Già, peccato che Torisi muore di infarto a 51 anni nel pieno della sua carriera, mentre Socrate muore ormai vecchio accettando una sentenza di morte emessa dai suoi concittadini che lo sopportavano male, discettando su quando siano scomode le catene. Tra i due ci fa sicuramente più simpatia un comico triste piuttosto che uno straccione, bruttissimo, pedofilo e omosessuale di altri tempi che in più si piccava di passare le giornate cagando il ca%%o ai suoi concittadini per "dovere" (secondo quando ci riferisce Platone). Per quanto riguarda la vita di Euclide sappiamo poco.
Ma questo è il punto: preferiamo una vita fragile, triste e godereccia anche se di successo o fregarcene altamente di qualunque cosa che non sia la libertà di pensare a prescindere da quanto caghiamo il ca%%o o facciamo schifo? Perché in entrambi i casi in genere si è fortunati ad arrivare alla vecchiaia, ma nel secondo poi non hai nulla da rimpiangere


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ignorans
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anche ”sapere di non sapere” e' un sapere. Non bisogna trastullarsi con i concetti.
Mi verrebbe da dire ”la meta e' la strada”, oppure ”tutto cambia”. Uno rimane presente a quello che accade e via andare....


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GioCo
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ottavino;239987 wrote: anche ”sapere di non sapere” e' un sapere. Non bisogna trastullarsi con i concetti.
Mi verrebbe da dire ”la meta e' la strada”, oppure ”tutto cambia”. Uno rimane presente a quello che accade e via andare....

Certo ottavino, l'autore sottolineava che era il suo unico sapere, non l'ha mai smentito. D'altronde mi è difficile anche solo pernsare a una forma di vita che non sia accompagnata da una qualche forma di sapere. Le piante reagiscono riconoscendo i loro parenti e nemmeno hanno un sistema nervoso animale.

Sul fatto che "tutto cambi" o che la "strada è la meta", potrei ribattere che a noi non piace cambiare (e questo ha un senso biologico preciso) e soprattutto non ci piace rimanere per strada se non "poeticamente". In altre parole possiamo cianciare di un sacco di cose come suggerisci, ma è poi l'azione pratica che ci cambia. Stando seduti su una sedia o facendo l'eremita per il mondo ha poca importanza, il cambiamento non è mai stato un fare particolare, ma è il fare significativo che lo permette. Putroppo poi in retrospettiva noi possiamo solo valutare quanto è stato fatto, non il significato che ha prodotto quel comportamento. Per ciò la fatica è proprio questa, smettere di pensare a quello che dobbiamo fare e motivare ogni nostro gesto prima di compierlo.


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ignorans
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mentre parliamo cellule muoiono e nascono, i reni lavorano e il cuore pure. il mondo della 'volonta'' e' piccolo, mentre quello involontario e' molto piu' ampio. Non resta che sintonizzarsi e dimenticarsi.


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ignorans
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se mettiamo di mezzo la nostra volonta' non saremo mai davvero "ignoranti".
naturalmente non possiamo neanche evitarcelo.
E' un bel casino!


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