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Dov'è la realtà in tv? Parla solo di se stessa


Tao
 Tao
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"Dov'è la realtà in tv? Parla solo di se stessa e oggi non farebbe lavorare Rossellini"

Gilberto Squizzato è uno degli ultimi artigiani della nostra televisione. Eppure non sono in molti a conoscere il suo lavoro di giornalista, regista e scrittore: paradossalmente nemmeno all'interno di quella Rai dove presta servizio dal 1979. Dai primi lavori per il neonato tg regionale, a Rai3 con Angelo Guglielmi, fino agli esperimenti di "film dal vero" d'impronta più marcatamente autorale, il suo percorso si è sviluppato organicamente attraverso la contaminazione di linguaggio giornalistico e linguaggio cinematografico. Maturando uno sguardo che ha fatto del racconto della realtà la sua cifra.

Atlantis , Il Tunnel , L'Uomo dell'argine (primo esperimento di ibridazione tra racconto filmico e materiale d'archivio) sono alcuni tra i suoi ultimi lavori. Il più recente, penalizzato da una scellerata collocazione di palinsesto, è Suor Jo , scritto a quattro mani con Giuseppe Genna. Anno 2005. Dopodichè, il silenzio forzato. «Io ho cercato di lavorare dentro la televisione e ho scoperto di essere un corpo sostanzialmente estraneo. La televisione, in particolare da un decina d'anni a questa parte, riconosce la propria identità soltanto nella serializzazione. Secondo me sbagliando. Questa televisione oggi non farebbe lavorare Rossellini, che pure ne ha fatta tanta».

La scelta di passare alla fiction risale solo alla fine degli anni Novanta: alle spalle di questa, c'è una storia di passione, impegno e militanza lunga trent'anni. «Sono nato a Busto Arsizio, una propaggine di quella grande conurbazione che va da Como, a Varese, a Lodi. Un'unica grande megametropoli: quella che nella mia terza serie ho chiamato La città infinita . Nel mio tempo libero non ho mai frequentato intellettuali, giornalisti o uomini di cultura, ma solo la gente della provincia. Per questo non ho mai voluto trasferirmi a Milano: per mantenermi intenzionalmente un uomo della periferia». L'hinterland milanese (lo sprawl di tanta letteratura cyberpunk) è una delle dorsali del lavoro di Squizzato. Un cordone ombelicale affettivo da cui attingere storie e, assieme, il teatro di alcune delle trasformazioni più emblematiche del paese negli ultimi anni.

«La Lega è nata a 300 metri da dove abito. Ma quello che molta sinistra ignora è che Bossi ha dato voce ad una parte della Dc, la parte maggioritaria, che io ho conosciuto quando sono entrato in consiglio comunale a 25 anni da indipendente nelle liste del Pci. Ed era una Dc assolutamente diversa da quella della pianura che poi sarebbe diventata egemone a livello nazionale. L'essere padroni a casa propria. Il bisogno di difendere i risultati del proprio lavoro. Il discriminare lo straniero in base non a criteri razzistici, come si sbaglia a pensare, ma solo alla disponibilità a lasciarsi volontariamente assimilare dall'etica del lavoro, della produzione, dell'accumulazione, del riconoscimento sociale attraverso la proprietà: questo era già tutto dentro una parte della Dc - di destra - di questo territorio».

L'incontro con il cinema avviene prestissimo, già nel periodo universitario (la Statale di Milano vissuta negli anni di massimo fermento). E avviene confrontandosi direttamente con i maestri: prima Alberto Lattuada, poi Carlo Lizzani. Dal primo, "elegantissimo lombardo", Squizzato impara proprio quell'artigianato dell'immagine che caratterizzerà tanta parte del suo lavoro televisivo: "la ricerca dei segmenti di realtà che parlano da soli".
Ricordando Lizzani, invece, la memoria va a un vecchio film del 1964: La Vita Agra , tratto dal capolavoro di Bianciardi. Il resoconto sofferto e a tratti grottesco dell'esistenza piccolo borghese di un intellettuale a cottimo dentro la metropoli. «E' incredibile che a raccontare la modernità di Milano sia stato alla fine il romano Lizzani. Con La Vita Agra aveva capito che l'Italia del nord stava per essere divorata dall'interno dal capitalismo moderno. Quello era il momento nel quale bisognava cominciare a prendere un posto nella società come intellettuale. E per prendere un posto qualche compromesso lo devi accettare. E' la nascita dell'industria culturale: o approdi lì, o sei un fallito. A meno che tu non voglia camminare sempre sulla linea di frontiera. Ed essere sempre non assimilato e non assimilabile».

Dopo tre anni di insegnamento alle scuole superiori, naturalmente a Busto, sarà proprio su questa linea di frontiera, di non assimilabilità, che Squizzato dirigerà il suo lavoro nella grande macchina televisiva. Vince il concorso in Rai da regista nel 1978 e viene assunto come giornalista l'anno successivo, quello della nascita del terzo canale. «Quando andai in redazione la prima volta rimasi di sasso perché non si facevano film da 100 minuti, si facevano pezzi da un minuto». Cominciano così, con un piccolo shock, dieci intensissimi anni di cronaca. Prima al Tg3 Lombardia, poi al nazionale, per trovare infine la misura ideale nei formati più dilatati e specificatamente filmici: rubriche, speciali e reportage. E' la Rai di Bruno Ambrosi ed Elio Sparano. La Rai di Albino Longhi direttore al Tg1 , Gustavo Selva al Gr2 , Emanuele Milano vicedirettore generale. «Quando sono entrato io, la Rai era molto esigente: con tutti i suoi difetti e tutte le sue censure aveva il grande pregio di richiedere un'alta professionalità. Altissima. Per potere andare in onda in rete nazionale con un pezzo di tre minuti dovevi fare una gavetta di sei anni. Soprattutto c'era un grande rispetto per le persone. Non ti era permesso di usare una terminologia qualsiasi quando c'erano di mezzo fatti di sangue. Quando c'erano delle vittime. Insomma, non c'era quel supermarket della cronaca violenta che viene smerciata oggi come un prodotto qualsiasi. C'era un rispetto ferreo per le persone, che oggi non esiste più. Diciamo pure un'etica del servizio pubblico».

Nel '89 Angelo Guglielmi lo chiama alla rete. In qualche modo, per Squizzato, è un cerchio che si chiude: l'idea di televisione di Guglielmi è proprio quella di una perlustrazione ostinata e paziente della realtà. Una televisione sporca, fatta per strada, e quindi fatalmente antitetica (anche qui) alla televisione di oggi, da cui gli esseri umani in carne, dolori e sangue sembrano essere stati definitivamente cancellati. «Oggi dov'è la realtà in tv? Ormai la tv è una macchina autoreferenziale che parla solo di sé stessa. La realtà è faticosa da trovare. Devi andare in miniera per trovare la realtà. Realtà e realismo si confondono con il naturalismo più semplicistico».

Animato da questo spirito esplorativo - il bisogno di far parlare la realtà con la sua voce - Squizzato lavora ad alcuni dei programmi storici di Rai3. Primo dei quali, I Racconti del 113 : storie dal vero di un'umanità ai margini in cui la macchina da presa è uno strumento neutro di indagine esistenziale, rispettoso delle vicende dei protagonisti, e non un pretesto per il voyeurismo dello spettatore.In dieci anni di lavoro con Guglielmi, Squizzato sperimenta il linguaggio del reportage contaminandolo con quello del film ( Pianeta Est , Interset , La guerra dell'acqua rossa ), e preparando il terreno a quello che sarebbe diventato il primo esperimento di docufiction della televisione italiana.

I racconti di Quarto Oggiaro (1999) - primo capitolo della "trilogia milanese" cui seguiranno Atlantis (2000) e La Città Infinita (2002) - è il documento della mutazione antropologica di un quartiere operaio negli anni terminali della metropoli industriale. Una ragnatela di piccole storie di periferia, che tocca tutti i temi caldi della cronaca (la xenofobia montante, il dilagare dello spaccio di strada, la delinquenza giovanile), per descrivere il crollo di un'idea di comunità. «Quella che Zygmunt Bauman avrebbe poi definito società liquida, io ho cominciato ad esplorarla in quei lavori: è la storia del prepotente smembramento di tutte le reti sociali, dello sviluppo incontrollato dell'hint
erland, dell'atomizzazione dell'individuo. In una parola, la fine delle comunità di destino. E' una società che viene raccontata nella sua disgregazione: quello che è accaduto è che è scomparsa non una classe, è scomparsa la coscienza di essere tributari del proprio lavoro a una grande macchina come quella della globalizzazione».

Girati con budget irrisori, con sceneggiature scritte in diretta e personaggi quasi sempre presi dalla strada, i film dal vero di questo instancabile camminatore delle periferie hanno rappresentato una delle ultime anomalie nel panorama televisivo italiano. Anomalie preziosissime che la tv della verità geneticamente modificata non è stata in grado di metabolizzare, preferendo passarle sotto un'imbarazzante cortina di silenzio.

Peppe Fiore
Fonte: www.liberazione.it/
5.06.08


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