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Onda Nera


Mari
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ONDA NERA

16.1.12
di Gianni Lannes


Mediterraneo.

Il Mare Nostrum è inquinato da grandi quantità di petrolio e lo avvelenano valanghe di sostanze chimiche. In Italia a rischio anche le aree protette: al largo della Toscana il governo Berlusconi ha autorizzato un rigassificatore. Greenpeace: “Veleni a galla”

E’ l’impasto dei colori a folgorare il viaggiatore che sbarca in questa trentina tra isole e isolotti di natura incontaminata. L’acqua blu cobalto si illumina di turchese sotto costa, là dove accarezza il verde acceso della macchia e le scogliere di granito rosato modellate dal maestrale. Le cinque e miglia e mezzo di mare che separano l’isola di Razzoli (Parco Nazionale della Maddalena dal ’96) da quelle di Lavezzi si trovano sulla rotta di grande navigazione che da Marsiglia, per lo Stretto di Messina scende al Canale di Suez e si dirige nell’estremo Oriente. Chi ha esperienza di navigazione sa che queste acque sono difficili a cause di secche, scogli e venti tesi. Ecologisti, scienziati e navigatori concordano nel ritenere che lungo la Penisola italiana sono particolarmente a rischio di inquinamento petrolifero proprio le Bocche di Bonifacio (fra Sardegna e Corsica), la laguna di Venezia e lo Stretto di Messina. Si tratta di zone di incalcolabile valenza naturalistica e grande importanza storica per l’umanità: ecosistemi sensibili che vanno protetti dal verificarsi di incidenti le cui conseguenze sarebbero catastrofiche. Ogni giorno è inquinato da grandi quantità di petrolio e lo avvelenano fiumi di sostanze chimiche. Mentre sono numerosi i traffici illegali di scorie nucleari - spesso inabissate - a solcare i suoi mari. Sono alcune gravi emergenze del Mediterraneo. Un mare sempre in bilico tra vita e morte e che non smette mai di stupire. Greenpeace sta combattendo dall’Italia la sfida per poterlo salvare, appuntando l’attenzione sul Santuario dei Cetacei (nato nel 1999 - un triangolo marino protetto a parole che si estende dalla Liguria alla Toscana fino alla Sardegna e include la Corsica. L’ultimo rapporto - “Veleni a galla” - sulla base di una solida documentazione scientifica non fa sconti: «Da anni Greenpeace denuncia che la mancanza di norme specifiche e controlli rigorosi hanno portato l’area a uno stato avanzato di degrado. Dal 2010 l’inquinamento da sostanze pericolose oltre a contaminare l’ambiente sta avendo un impatto negativo anche sulla catena alimentare. - I guerrieri dell’arcobaleno non scherzano e sono ben documentati - Tra i fattori che maggiormente minacciano il Santuario troviamo inquinamento, traffico marittimo, contaminazione da batteri fecali e dulcis in fundo, l’imminente costruzione di un rigassificatore di fronte alla costa di Pisa-Livorno». A cui si sommano le ininterrotte esercitazioni belliche della Nato - con unità a propulsione ed armamento nucleare - e delle varie forze armate italiane, da nord a sud della penisola, isole ed aree marine “protette” (sulla carta) ben incluse. Diamo i numeri: solo nel 2011 l’Unep ha rilevato “un migliaio di sversamenti deliberati di greggio”. Un milione di tonnellate ogni santo anno: è la quantità di “oro amaro” che inghiotte suo malgrado la culla della civiltà occidentale, a causa di incidenti e perdite fisiologiche. Anche se la Convenzione di Barcellona - in vigore dal 1976 - li vieta espressamente, gli scarichi nocivi si moltiplicano. Il Mare Nostrum è la rotta di navigazione preferita per il trasporto di petrolio dai paesi produttori a quelli industrializzati. Pur rappresentando appena lo 0,8 per cento della superficie marina mondiale, è interessato dal 35 per cento del traffico marittimo planetario. In cifre: 400 milioni di tonnellate annue - secondo stime UNCTAD (la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo) - che potrebbero diventare circa un miliardo nel 2012. Ogni giorno - attesta il Centre of Documentation Reaserch on Accidental Water Polluction - in questo bacino naturale, che impiega 80 anni per il ricambio delle sue acque superficiali circolano 250 - 300 petroliere (il 70 per cento ancora monoscafo). L’assenza di un sistema di controllo VTS (Vessel Traffic Service) integrato per l’intera area mediterranea non consente di acquisire dai centri di controllo notizie in anticipo sulle navi in difficoltà come avviene in Canada.


Mediterraneo.

Aree sensibili - Ecologisti, scienziati e navigatori concordano nel ritenere che siano particolarmente a rischio le Bocche di Bonifacio (fra Sardegna e Corsica), lo Stretto di Sicilia, la Laguna di Venezia e gli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli. L’Adriatico è il più martoriato: il governo Berlusconi - grazie alla flebile opposizione parolaia del governatore Nichi Vendola che, a sua volta, ha rilasciato autorizzazioni a cavare petrolio e gas nelle viscere dell’Apulia felix - ha recentemente concesso permessi per prospezioni idrocarburi al largo della Puglia: dal parco marino delle Isole Tremiti al Mar Ionio. Si tratta di zone di incalcolabile valenza naturalistica e grande importanza storica per l’umanità: ecosistemi sensibili che vanno protetti dal verificarsi di incidenti le cui conseguenze sarebbero catastrofiche. Le aree di competenza territoriale italiana sono davvero salvaguardate nel nostro paese che vanta ben 17 leggi a difesa del mare, promulgate a partire dal 1961? Il decreto che vieta le coste del belpaese alle petroliere prive di scafo con oltre 15 anni di vita, secondo Angelo Bonelli (Presidente della Federazione dei Verdi) “è incompleto perché circoscrive le limitazioni all’ingresso nei porti e nei terminali off-shore, mentre i rischi di incidente sono presenti soprattutto durante la navigazione e a prescindere dalla stazza dei natanti”. Ma diamo un’occhiata. “Ogni giorno nelle Bocche transitano 5 o 6 petroliere, più un gran numero di navi da carico di tutti i generi” rivela Jean Michel Culioli, uno degli esperti della Riserva naturale delle Isole Lavezzi (istituite nel 1980 nel territorio francese). Il fenomeno è evidente: anche il cronista constata visivamente l’affannoso andirivieni di autentiche carrette del mare. Nonostante l’accordo bilaterale coi cugini d’oltralpe - suggerito dalla collaborazione nel 1992 fra i ministri dell’Ambiente Royale e Ripa di Meana - non è stato ancora imposto un blocco da Roma alle navi potenzialmente più pericolose. A chi attribuire omissioni e irresponsabilità? Legambiente punta il dito contro il governo. “La decisione siglata tra ministero dell’Ambiente e Confindustria, per anticipare i tempi di dismissione delle carrette del mare e tutelare la laguna di Venezia e le Bocche di Bonifacio, è rimasta ancora lettera morta” accusa Sebastiano Venneri, responsabile mare del cigno verde. L’accordo volontario sottoscritto il primo giugno 2001 tra Governo, Confindustria, Assoporti, Associazioni ambientaliste e Organizzazioni sindacali, per “l’attuazione di una serie di interventi finalizzati al conseguimento di più elevati standard di sicurezza ambientale in materia di trasporti marittimi di sostanze pericolose”, all’articolo 6 stabilisce che “a partire dal 1° luglio 2001 Confindustria e i settori industriali interessati, anche per conto delle imprese e aziende associate, s’impegnano ad utilizzare navi trasportanti sostanze pericolose esclusivamente sulla base di contratti che escludono espressamente il transito nelle Bocche di Bonifacio”. Dal canto suo, “Il Governo s’impegna ad agire in tutte le sedi comunitarie ed internazionali per giungere all’eliminazione del transito di sostanze pericolose nelle Bocche di Bonifacio”. In pratica, a tutt’oggi un nulla di fatto. Le cinque e miglia e mezzo di mare che separano l’isola di
Razzoli (Parco Nazionale della Maddalena dal ’96) da quelle di Lavezzi si trovano sulla rotta di grande navigazione che da Marsiglia, passa per lo Stretto di Messina scende al Canale di Suez e si dirige nell’estremo Oriente. Chi ha esperienza di navigazione sa che queste acque sono difficili a cause di secche, scogli e venti tesi. Quanto a Venezia, il documento governativo recita: “Il trasporto di greggio da e per il porto di San Leonardo, con decorrenza dalla firma del presente accordo può avvenire solo con navi dotate di doppio scafo”. Allora tutto in regola? Macché. Ben 5 milioni e 400 mila tonnellate di greggio hanno sfiorato (al largo) l’anno scorso piazza San Marco e il Canal Grande. Non è tutto. Un’altra disposizione istituzionale è stata disattesa: la direttiva Venezia emanata dal Ministro dell’Ambiente il 13 febbraio 2001 e integrata il 9 marzo dello stesso anno ha disposto una “specifica regolamentazione degli accessi nella Laguna delle navi trasportanti prodotti pericolosi”. Lo specchio lacustre su cui galleggia Venezia è tutt’altro che al sicuro. Il rischio di incidenti e l’inquinamento sono reali.

Pericoli concreti - Nel 1993 l’Imes e il Cnr hanno simulato un incidente con sversamento di greggio nell’area. Lo studio, ipotizzando uno spargimento di 5-10 mila tonnellate di greggio ha prospettato un paesaggio apocalittico. Nel belpaese “Diciannove aree protette e riserve marine rischiano di essere inondate da tonnellate di petrolio che viaggiano lungo il Mediterraneo” segnala il WWF. Tra queste ci sono anche le coste del Parco Nazionale del Gargano, l’Arcipelago delle Isole Tremiti, Ustica, le Eolie, l’Arcipelago Toscano. “Un pericolo non virtuale - afferma Franco Ferroni - collegato alla presenza dei siti d’interesse nazionale: Trieste, Venezia, Ravenna, Falconara, Taranto, Siracusa, Cagliari, Napoli, Civitavecchia, Livorno e Genova. Una ricerca sulle maree nere nel Mediterraneo per l’Istituto di Studi Politici, curata dal professore Ugo Bilardo del Dipartimento di Ingegneria Chimica della Sapienza di Roma, definisce “Tutt’altro che rassicuranti i piani di emergenza messi a punto in Italia”. Il nostro paese che vanta la maggiore capacità di raffinazione primaria di greggio dell’Unione Europea - pari a 180 milioni di tonnellate annue - è unico nel suo genere: le raffinerie petrolifere sono inserite nei centri urbani. In Turchia non va meglio. Il Bosforo, lo stretto braccio di mare che unisce il Mar Nero al Mediterraneo è un'autostrada di petrolio. “Ogni quarto d’ora attraverso il Bosforo e lo Stretto dei Dardanelli passa un cargo pericoloso” dichiara l’ambientalista Yuksel Ustun. Qui transitano circa 45 mila navi ogni anno e gran parte di queste sono petroliere: in loco passano 50 milioni di tonnellate all’anno di petrolio (russi e delle repubbliche asiatiche). La statistica degli incidenti è impressionante: 322 documentati negli ultimi 9 anni. L’incidente più grave si è verificato nel 1979, quando affondò una petroliera armena. L’ultima volta che la questione ha guadagnato le prime pagine dei giornali di tutto il mondo è stata nel 1994, quando un mercantile ha speronato una petroliera che si è incendiata con tutto il suo carico. Il 28 dicembre 1999, invece, la petroliera Volgoneft 248 della società russa Transpeyro Volga si è spezzata in due al largo di Instanbul, nel Mare di Marmara. Il Bosforo, in sostanza, è una via d’acqua insidiosa: lunga 30 chilometri e stretta in alcuni punti appena 660 metri da una riva all'altra. Il transito è regolamentato dalla Convenzione di Montreaux del 1936. Da allora il volume di traffico è aumentato di 40 volte. Soluzioni a livello planetario? “Bisogna lavorare in due direzioni - suggerisce Greenpeace -. La prima è tecnica: aumentare drasticamente i controlli per le petroliere e vietare quelle prive di doppio scafo”. Soprattutto “Si devono ridurre i flussi di petrolio”. La sistematica ricerca di trasporti a bassissimo costo spiega la lunga litania di disastri.

Bandiere fantasma - Esiste una stretta correlazione tra età, manutenzione delle navi e naufragi. La flotta mondiale delle petroliere è obsoleta: circa il 90 per cento delle navi ha più di 22 anni e soltanto il 20 per cento è dotata di doppio scafo e di doppio ponte, che evita l’immediata fuoriuscita di greggio. Il 61 per cento delle 7 mila petroliere attualmente in navigazione, usa bandiere di comodo. E’ degno di nota il fatto che il 52 per cento della flotta controllata dalle prime 30 nazioni marittime del mondo è registrata in “paesi in via di sviluppo”. Nel Mediterraneo: Grecia, Cipro, Malta, Libano e Gibilterra hanno messo in vendita la loro sovranità, immatricolando intere flotte sotto i propri vessilli, senza disporre di adeguati mezzi di controllo e di gestione. Nell’Europa occidentale, che possiede il 51 per cento della flotta mondiale, il 65 per cento delle navi batte bandiera ombra. E addirittura il 61 per cento della flotta dei Paesi dell’Ue, batte bandiera estera: il Belgio il 100 per 100, a fronte dell’85 per cento della Svezia e dell’80 per cento del Regno Unito. L’Italia si attesta sul 35 per cento, mentre la Germania tocca il 65 per cento e la Francia sfiora il 45. Secondo il Lloyd’s Maritime Information Service, gli “open registry” più utilizzati dagli armatori italiani sono nell’ordine: “Malta dove è immatricolato il 32,7 per cento della flotta italiana registrata all’estero, le Bahamas con il 20,5 per cento, la Liberia con il 14,5 per cento e Cipro con il 7,5 per cento”. Da almeno un decennio le associazioni ambientaliste esortano la Commissione europea ad adottare alcune misure cautelative: divieto d’ormeggio nei porti dell’Unione Europea per le petroliere con più di 15 anni, adozione di un calendario di scadenze per vietare l’approdo alle petroliere sprovviste di doppio scafo e interdizione delle bandiere ombra. Ma sotto le pressioni della lobby petrolifera e delle organizzazioni armatoriali, il Consiglio dei ministri dell’Ue non ha ancora applicato un solo provvedimento. Gli affondamenti delle petroliere vanno prevenuti e non possono essere curati successivamente.


Siracusa.

http://sulatestagiannilannes.blogspot.com/2012/01/onda-nera.html#more


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