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Tre rose bianche sulle macerie


mastermind
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Tre rose bianche sulle macerie. E' il funerale privato di Cristina

ONNA - Il funerale di Cristina è lontano dalle bare. Con le gambe fasciate, siede sulle macerie della sua casa, in via della Colonna. E' sola e indossa la vestaglia bianca dell'ospedale. I vigili del fuoco rinunciano a portarla via. Prima del mattino, aiutata dalla sorella, si è trascinata fuori dalla corsia. Ha raggiunto la caserma della Finanza per toccare il legno che la separa dai suoi morti. Domenica notte ha perso il marito Antonio, il falegname di Onna, i figli Alexandro e Lorenzo, di quattro e tre anni. Quando li hanno trovati, il papà teneva i bambini in braccio. Ora è tornata qui: di nuovo a casa da loro. Dove c'erano i letti posa tre rose bianche. Poi si chiude gli occhi con una mano e con l'altra, per due ore, accarezza i calcinacci. Nessuno si avvicina, anche se una piccola folla osserva dal prato "il funerale di Cristina".

Una ruspa smette di spostare muri crollati e si sente che lei sta parlando. Poco prima delle 13, quando capisce che "è tutto finito", si alza e se ne va. Dice solo che anche lei è "morta qui" e che all'Aquila non poteva "stare tra i vivi".

Il giorno dell'addio, nei paesi dei morti, è vuoto. Migliaia di sfollati, alle otto, zoppicano sulle corriere per andare ai funerali. I vecchi sono pronti dalle sei, in piedi fuori dalle tende. Hanno il sacco a pelo sulle spalle. La gente non sa cosa mettersi addosso e si vergogna "di andare da loro non regolata". Hanno i capelli sporchi, non si lavano da una settimana e molti partono in tuta, ciabatte e coperta. Per la prima volta gli accampamenti dei sopravvissuti restano deserti e silenziosi, come le strade scoppiate dei defunti.

"Questa colpa - dice Valentino Pallotta, di Fossa - la sentiamo. Siamo, casualmente, vivi. Andare da chi non ce l'ha fatta, da quelli che non siamo riusciti a proteggere, è come presentarsi ad un giudizio". I paesani che oggi vanno in città, e guardano l'Aquila distrutta per la prima volta, si sentono "privilegiati per aver solo perso tutto". Scendono da San Demetrio, Filetto, Pescomaggiore, Monticchio, San Gregorio, Casentino, San Pio delle Camere, Camarda, Tempera, Paganica, Bazzano, Ocra, Poggio Picenze, Sant'Eusanio, Villa Sant'Angelo e da tutti i villaggi che non sono diventati "un simbolo". Una colonna di fantasmi. "Non atterrano gli elicotteri dei politici - dice Orazio Bologna - e le tivù non trasmettono.
Basta poco per diventare terremotati di serie B".

Chi non è ai funerali lo percepisce, questo vago sopruso. Sono i più deboli: vecchi, bambini, malati, feriti, invalidi. A Villa Sant'Angelo si appoggiano ai tavoloni della mensa e cercano, sulle bare, i nomi dei 17 compaesani. Riuniti davanti ad uno schermo, non piangono e non parlano tra loro. Antonio Andreassi, nel cimitero sconvolto, prepara un posto per il papà Loreto, la mamma Irma e la sorella Antonietta. Quindici, nell'ora della passione cristiana, le sepolture.

"Ci fanno ripetere che ricostruiremo - dice Sara Ciambotti, studentessa di Poggio Picenze - ma sappiamo che qui non c'è più una vita da vivere. Non c'era lavoro: ora non abbiamo più la casa, le famiglie, gli amici". Nei paesi invisibili oggi i superstiti hanno un'idea più forte del cuore: andare via per sempre. I centri costruiti con le rimesse degli emigrati nelle Americhe, negli ultimi trent'anni, si sono svuotati. Le famiglie, dalla montagna, si erano concentrate nella città ora sepolta. A centinaia, nelle tende, gonfiano sacchetti e si preparano a ripetere il viaggio dei nonni, o a "salire al Nord". "E' stato tutto inutile - dice Roberto Leone - si sono spezzati la schiena per niente". Vivono la tentazione dell'addio come "un tradimento, degli altri e di noi stessi".

Ma anche i vecchi, che non si sentono tenuti a recitare l'abruzzese, dicono che "se avessimo vent'anni di meno, ce ne andremmo". Spingono i figli ad abbandonarli. Una mazzata: per un altro pezzo di territorio, che è un mondo, è la fine. Vivere, si sa, è diverso da sopravvivere, come i ventimila nelle tende.

E il terremoto, per chi resta, inizia quando i funerali finiscono. Nei paesi piccoli e dimenticati, attorno a l'Aquila, sale un senso di umiliazione. "Scusateci - dice a Casentino Loredana Liberatore - se siamo vivi. Siamo colpevoli di aver avuto pochi morti. Sono crollate solo le case e di noi si sono già stufati tutti. Però noi siamo qui e non sappiamo come fare".

E' vero. Basta spostarsi di pochi chilometri, da Onna, o da Paganica, e corre la voce dell'abbandono. Le case pericolanti sono puntellate con rami di mandorlo fiorito. I centri antichi sono rovine incustodite. A Villa Sant'Angelo una televisione è accesa su RaiTre, e irraggiungibile, da domenica. Negli accampamenti spontanei mancano ancora acqua e luce.

Per riscaldare notti gelate si fanno a pezzi le finestre precipitate e si accendono fuochi nelle carriole. "Non abbiamo una cucina coperta - dice Ezio Carone nel campo di Sant'Eusanio - un posto dove mangiare insieme. Sediamo, al buio, sulle sedie portate via dal bar. Siamo gente abituata ai sacrifici: ma non ci sono stufe, docce, biancheria. I bagni sono già fuori uso. Per quattro volte il ministero ci ha comunicato nomi diversi del responsabile della tendopoli: persone risultate inesistenti". Volontari, militari e pompieri sono straordinari. Ma tra gli sfollati monta la paura di essere, presto, dimenticati. "I vecchi centri - dice Riccardo Sperandio - non sono in realtà ricostruibili. Ci vorranno anni solo per sgomberare dai crolli. I tecnici ce l'hanno detto: pianificano il trasferimento dei paesi, distribuiti in casette a schiera. Non sarà più come prima".

I pullman, nel pomeriggio, riportano i vivi tra le brande. I morti, oltre cinquanta, non possono invece tornare a Onna, Bazzano e Paganica, dove anche il cimitero è distrutto. E' come se qualcosa non risultasse compiuto, un tempo non consumato. In largo dell'Allegria, a Fossa, i mobili poveri di una vecchia morta in cucina sono ancora in mezzo alla strada. "Nessuno - dice Enio Giacomantonio - pagherà per rimettere in piedi i villaggi anonimi di chi è andato via?". Dietro, sui sassi di un muro piegato, c'è scritto: "W l'Italia, W il re, W Badoglio". Altro che "ricostruzione immediata": da settant'anni, nei paesi, nemmeno non si dava una mano di colore.

Giampaolo Visetti
Fonte: www.repubblica.it
Link: http://www.repubblica.it/2009/04/sezioni/cronaca/sisma-aquila-3/visetti-funerale-privato/visetti-funerale-privato.html
10.04.2009


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