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Carità di Stato


MatteoV
Reputable Member
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Lo hanno chiamato “Reddito di inclusione” il contributo del governo per le famiglie al di sotto della soglia di povertà assoluta, che dovrà sostituire il precedente “Sostegno per l’inclusione attiva”. Al di là del lessico, si tratta di qualche leggero ritocco che lascia inalterata la sostanza.
Rimane la concezione dell’assistenza pubblica come “carità di Stato” che ha sostituito lo Stato sociale. Si tratta di un contributo che potrà servire soltanto, nel migliore dei casi, ad alleviare la condizione di sofferenza di una parte ristretta di popolazione, senza però mutare di una virgola gli equilibri economici.
Già il nome tradisce una falsa coscienza dei suoi propugnatori, infatti l’“inclusione” che viene proclamata come scopo del sussidio, il quale dovrebbe mirare al reinserimento nel lavoro, non si dà poi concretamente; sono del tutto assenti politiche per il lavoro, per la riduzione della disoccupazione e per l’aumento dei salari. Se permangono le condizioni che determinano uno dei livelli di disoccupazione più alti di tutta la storia dell’Italia repubblicana non si capisce in che modo il contributo dovrebbe “includere” i poveri a cui sarebbe destinato.
Per di più, nel frattempo, il governo intende tagliare la spesa: quindi da un lato si dà denaro ai poveri, dall’altro glielo si toglie attraverso la contrazione dei servizi pubblici. È il solito gioco a somma zero (se non addirittura in positivo per il bilancio pubblico e in negativo per l’economia, in ossequio alle norme del Patto di Stabilità e del Fiscal Compact) che sposta fondi da una parte all’altra.
Il “Reddito di inclusione” è solo una delle tante varianti di integrazione del reddito. Questa si basa su tre impliciti assunti, ovvero: a) che permarrà sempre un certo livello di disoccupazione, b) che ci sarà sempre una fascia di popolazione con un reddito insufficiente e c) che la povertà e la disoccupazione saranno, per questa fascia di popolazione, caratteri cronici... [CONTINUA]


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