Davide Miccione
Avanti.it
Da un bel po’ ci si gira intorno. Come tutto ciò che a pensarlo sembra enorme anche in questo caso si tende a isolarne solo alcuni aspetti o a limitarne la portata. La questione però ritorna con sempre nuovi autori e nuove angolazioni e nuovi modi di nominare ciò che ci inquieta e ci confonde. A voler brutalmente riassumere: la nostra è una civiltà depressa, stanca e antivitale; una civiltà che riesce a essere realista senza essere adulta, pessimista senza cessare di essere ingenua, fredda pensando di essere sensibile. Chiunque riesca a fermarsi dalla continua mobilitazione delle intelligenze ed emotività residue in favore della sarabanda bellica, pandemica, pseudopolitica, energetica, ecologista, sessuogenderista potrebbe rendersene conto.
Basta ascoltare un po’ di diciottenni alle prese con la scelta universitaria e ci si accorgerà come il realismo li schiacci. Sembrano sessantenni reduci da una vita di fallimenti e di compromessi al ribasso. Sembrano dare per scontato di doversi adeguare ai messaggi, neppure troppo impliciti, che il sistema gli invia, alle aspettative piene di paura che le famiglie, pur avendo esplicitamente rinunciato alla leggibilità del mondo, continuano a passargli. Cosa c’è di meno rassicurante di un genitore (qualunque numero abbia) che ti dica: “non ci sto capendo più nulla, ma tu stai attento e non ci deludere”? Diversamente dal passato, neanche la minore o maggiore ricchezza della famiglia (quello che un tempo si diceva “avere le spalle coperte”) sembra avere sui figli alcun effetto in termini di libertà, di azzardo, di potersi concedere di seguire una vocazione (a meno che la vocazione non coincida per caso con i desiderata della famiglia e della società). Questa mancata correlazione tra benessere e libertà esistenziale dice della nostra contemporaneità moltissimo (per quei pochi disposti a capirlo).
Qualora i giovani non sembrino sufficientemente rappresentativi del nostro tempo basterà conversare con gli adulti del loro lavoro, del senso che trovano facendolo, del significato che gli assegnano, delle prospettive che coltivano. Vi investirà un’ondata di nichilismo, nostalgia per quel che era il lavoro fino a qualche decennio fa, denuncia dell’esautorazione della loro passione o intelligenza da parte della burocrazia o della “rivoluzione algoritmica”, schiacciamento del significato del lavoro sulla necessità di sopravvivere, prospettiva della pensione come massimo orizzonte; oppure deviazione della conversazione su quella che per il nostro interlocutore è la sua vera passione, messa da parte o abbandonata perché ad essa la società non assegna alcun valore economico o perché una serie di strozzature impedisce di poterla esercitare in maniera tale da averne in cambio un riconoscimento economico.
Né un giro tra le professioni della cultura (cioè tra coloro che hanno sempre dato dimora ai sogni e ai pensieri della civiltà e l’hanno aiutata a svilupparsi) migliorerà la situazione. Se il cuor vi regge potreste parlare con coloro che “tengono il forte” dei luoghi dove la gente si incontrava collettivamente con la cultura: i cinema, le librerie, le edicole, i teatri. Gli ultimi gestori e proprietari, quei pochi non inglobati da catene e grandi aziende, vi parleranno da uomini disgustati dal mondo o da ultimi giapponesi rimasti in guerra dopo la sconfitta e anch’essi speranzosi calcoleranno il tempo che manca alla pensione. Nessuno di loro (tranne pochi ingenui che hanno, come strategia psicologica di sopravvivenza, deciso di non capire) pensa che la loro attività abbia un futuro e nessuno pensa che i loro figli possano portarla avanti e che sarebbe un bene ereditarla.
Un vecchio libro di qualche anno fa, tra i migliori sul tema, fatto da due filosofi-psichiatri unendo riflessione e ricerca sul campo, definiva i nostri tempi come l’epoca delle passioni tristi, un’epoca dove si hanno pochi sogni, poche passioni, e obiettivi decisi da altri più che raggiunti attraverso una personale elaborazione.
La società occidentale è una società depressa e lo è da molto tempo, da più di un trentennio perlomeno. L’Italia lo è incommensurabilmente di più come del resto ci indicano le nostre posizioni di coda in classifiche che esprimono la scomparsa della fede nel futuro e della gioia di vivere. Siamo infatti da decenni tra gli ultimi per nascite, per sviluppo economico, per investimento in ricerca e istruzione, per letture. Siamo sempre tra i primi solo per invecchiamento della popolazione (ci precede il ricco e infelice Giappone) e per numero di ore di frequentazione di social e televisione (dati superiori alle otto ore giornaliere, qualora qualcuno volesse sapere quale sia ormai il vero impegno dell’italiano contemporaneo).
Uno sguardo sinottico a queste classifiche disegna la misera figura di un uomo sempre più vecchio, che non crede nel futuro, disinteressato alla comprensione del mondo, con una capacità di attenzione ormai inesistente, tendenzialmente chiuso in un privato che non è più privato stante il suo bisogno di essere distratto e monitorato costantemente dal flusso della connessione dati (una sorta di smart-flebo che si porta dietro). Un uomo che aspetta che altri meno tristi e rassegnati di lui decidano per lui, attirato da figure (si pensi ai tre fenomeni politici Berlusconi, Grillo e Renzi) parossistiche: energumeni, personalità palesemente sopra le righe che nonostante l’evidente inaffidabilità hanno il merito di distrarlo e di divertirlo e nella cui energia possa identificarsi e tirarsi un po’ su.
Esaurita, nei limiti impressionistici che consente un articolo seppure lungo, la descrizione della “cosa” e la gravità della medesima, sorge naturale la domanda che sempre bisognerebbe farsi in questo caso: “perché qualcosa di così grave viene ignorato?”. Perché una civiltà in picchiata come un aereo in panne si mette a discutere se sia il caso di ritinteggiare gli interni del velivolo e non della perdita di quota? La risposta, per inciso, è la stessa anche alla domanda: “perché tutto ciò sta accadendo?”.
Entrambe le domande hanno la stessa risposta: “perché non bisogna disturbare il corso tendenziale del capitalismo”. Non se ne parla perché il dibattito potrebbe mettere in questione ciò che va e deve andare in una certa direzione. Siamo una società depressa perché il mondo prescinde dalle nostre idee e dai nostri sentimenti per andare in una certa direzione e noi non riusciamo più neppure a pensare qualcosa di diverso dal mondo in cui siamo. Il concetto viene spesso richiamato da Fredric Jameson o da Slavoj Žižek (sebbene il biennio pandemico abbia messo alla prova la radicalità di quest’ultimo facendone una sorta di zio Tom leninista del capitalismo) che scrive, nel suo volume Virus del 2020 e proprio richiamandosi a Jameson, “è più facile immaginare l’umanità intera che, collegata digitalmente, i cervelli cablati, condivida esperienze in un’autocoscienza globale, che superare il capitalismo globale” oppure, più incisivamente, trovate il concetto in Mark Fisher: “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”. È il Realismo capitalista di Fisher: l’occupazione da parte della civiltà capitalista non solo del mondo, ma anche della sua libera pensabilità.
Così brutalmente intesa la questione ci colpisce, ma forse ci appare lontana. Bisogna, per capirla, tenere conto della profonda connessione che hanno ormai raggiunto cultura, modi di vivere, valori, estetiche, forme dell’interazione umana, emotiva e sessuale. L’indicibilità di alcuni temi secondo il politicamente corretto e l’incapacità di quest’ultimo di essere critico di fronte ai meccanismi che producono proprio quelle cose che pure la loro cultura considera come male assoluto (chi non vede il nesso strettissimo tra diseguaglianza, fine del welfare, società bloccata da un lato e sofferenza e marginalità delle minoranze etniche dall’altro?) dimostrano come non vi sia più molto spazio per pensare “altro”. Quale maggiore tristezza di un uomo non soddisfatto di come va il mondo e che non riesce neppure a immaginarlo diverso? E quale maggiore tristezza di chi se lo fa andare bene per lo stesso motivo? E infine: se niente di strutturale può cambiare, a che serve la nostra azione nel mondo?
A fronte di questo blocco del pensabile, dell’immaginabile e dunque del fattibile, si staglia sempre più chiara anche l’impossibilità di pensare a delle semplici uscite parziali dal mondo, a un isolamento volontario, persino a una pausa. Anche questo si fa impensabile. In una società basata sulla connessione, sul mercato dell’attenzione, sull’estrazione di valore dal singolo individuo come creatore di contenuti e fornitore di dati per il web, anche stare solo un passo indietro è disfattismo. Che sia la gioiosa macchina dell’ecologia dove ognuno pateticamente cerca di mettere una toppa a enormi buchi prodotti a monte di quella filiera produttiva di cui noi siamo gli ultimi operatori o sia la partecipazione obbligata a piani (pandemici o energetici o altro) che eradicheranno il male assoluto dal mondo (diciamo il male dell’anno, essendo assai cangiante e fantasiosa la scelta dei mali assoluti), in ogni caso si prospettano dinamiche che fanno pensare persino alla parola “inclusione” più come una minaccia che come una promessa.
Il reddito di cittadinanza visto come punto di arrivo non si discosta da questa idea che nel mondo non ci sia più molto da fare e che comunque la decisione di cosa fare non spetti a noi. In questo senso i neet, coloro che non studiano non lavorano e non si formano mostrano di essere la vera figura dello spirito del tempo, coloro che hanno subito il nichilismo (sempre meno) nascosto della nostra società e si sono fatti esseri del tutto passivi invece di simulare una finta attività, quasi a dire: “veniteci a prendere voi, noi siamo stanchi”. Loro sono i veri prodotti del realismo capitalista.
La subculture politiche dominanti, affaticate dal dover muoversi in paradigmi concettuali che non hanno più alcun riscontro effettivo con il mondo reale, come reagiscono di fronte a questo scenario?
La sinistra, riconoscibile dalla presenza nei suoi esponenti, militanti ed elettori, di un numero significativo di benestanti, di proprietari di beni mobili e immobili, di integrati, di collegati alle professioni di cui ha bisogno la finanza internazionale e l’oligopolio dei latifondisti del web, propongono sostanzialmente di aumentare la connessione tra cultura umana e bisogni del capitale, fino a rendere indistinguibile la prima dai secondi in ogni parte del globo. Una prima internazionale della Ztl culture? Evidentemente pensano che la sofferenza sia data non dal “blocco” del mondo ma dal poterlo ancora avvertire e che un ulteriore dose di realismo capitalista ci toglierà, dopo l’arto, anche il dolore dell’arto mancante
La destra, priva di una tradizione significativa di analisi socioeconomica della realtà, pensa invece perlopiù in termini di crisi dei valori. Pensa che la depressione della nostra società sia data dalla fine dei valori non cogliendo il nesso antropologico, vitale ed economico che i valori hanno con le società che li producono e non cogliendo i limiti che quei valori mostravano persino quando erano egemoni a fronte della varietà delle istanze umane. Il richiamo ai valori passati senza considerare la fine dei meccanismi e delle esigenze e delle speranze che li hanno prodotti è cosa adatta a samurai o a vecchi generali in pensione: figure in fondo dotate di un certo decoro, forse persino affascinanti, ma su cui è piuttosto improbabile costruire una società .
Ci sono poi piccole minoranze culturali, sostanzialmente ancora prive di rappresentanza politica e mediatica, che avrebbero anche qualcosa da dire ma hanno voce fievole e disunita e la loro provenienza recente dalle subculture precedenti rende difficile la costruzione di una vera nuova identità. A loro spetterebbe intanto mostrare la falsità della auto-rappresentazione che il mondo dà di sé, svelarci che la nostra tristezza ha una ragione e se non darci risposte almeno trovare insieme le giuste domande.
Complimenti per l'articolo, condivido tutto; In poche righe vi sono condensati molti concetti attualissimi. Pure io mi sento un Giapponese su di uno scoglio nel Pacifico 😉
Articolo sontuoso. L’accenno all’evidente impresentabilità dei nostri candidati e del fatto che comunque trovano un seguito mi ha fatto pensare a Phyneas Barnum, lui diceva che alla gente piace essere gabellata, lui ci ha costruito la sua carriera su questo concetto, la gente andava ai suoi spettacoli dove l’attrazione maggiore era magari una vecchietta che lui spacciava per avere 160 anni che secondo la sua storia era stata la balia di George Washington; le persone uscivano e lemme lemme si confidavano che l’un l’altra di non avere abboccato, e di non credere alla storia di Barnum e della sua vecchietta, di essere più furbi e scaltri di lui… nel frattempo lui intascava e si arricchiva. Li ingannava e nel farlo li faceva pure sentire più intelligenti. E a tutti stava bene, la fila per i suoi spettacoli era più lunga ogni giorno di più-
Penso che la dinamica sia la stessa per chi segue ancora il becero spettacolo dei politicanti nostrani.
Un tema di grande attualità e di proporzioni enormi trattato in modo direi quasi magistrale dall'autore del pezzo. In estrema sintesi si potrebbe dunque affermare: il capitalismo ha infine dato forma ed attuazione alla propria versione di dittatura politica ed ancor più di pensiero. E lo fa a livello globale con "fisiologiche" e lievi differenze dovute qua e là alle culture proprie delle popolazioni interessate. Ciò è, ad oggi, ben più evidente e tangibile di quanto non lo fosse nell'epoca meramente consumistica. Ma si tratta proprio del capitalismo? Me lo chiedo perché non vorrei correre il rischio di sostenere una tesi tutto sommato errata secondo cui, di conseguenza, l'applicazione del socialismo o di altri principi politici già teorizzati potrebbe rappresentare la soluzione a tutto ciò. Niente di più fuorviante. Direi allora che è il materialismo ad aver dato forma ed attuazione alla propria versione di dittatura. I fenomeni così ben descritti nell'articolo sono la conseguenza diretta dell'applicazione acritica dei principi materialisti a tutti i livelli della società. L'economia, naturalmente, ma anche la scienza, la cultura e le relazioni umane sono perentoriamente materialiste. Il materialismo non ammette critiche e nega stupidamente i propri limiti ormai evidenti. Così si crea e si è creato il "cortocircuito". Inutile dunque spingersi nel vicolo cieco della disputa tra chi ( a sinistra) intende proseguire con maggior forza nella stessa direzione e chi ( a destra ) si aggrapperebbe alla restaurazione di generici valori del passato senza sottoporli a vaglio critico. Occorrerà invece il coraggio di vedere con chiarezza i limiti del materialismo stesso e le menzogne che esso ci impone. Ci ha insegnato che le scelte non hanno alcun valore, che le rinunce non pagano, che si può avere sempre tutto e subito e che la dimensione morale e spirituale è un ridicolo fardello di cui liberarsi in fretta per raggiungere i propri "obiettivi". L'elenco potrebbe essere assai lungo. Questi principi che ci sono stati imposti sono per lo più inganni e questo è il mondo che alla fine ne è derivato.
applausi. In effetti, come diceva già Massimo Fini anni fa, liberismo/capitalismo e marxismo sono in fondo due facce della stessa medaglia. Stessa visione centrata sull'economia, sul progressismo, sull'idolatria per la scienza, sulla visione teleologica della storia; e il fondo filosofico comune è il materialismo come dici bene nel tuo post. Io credo che a lungo termine l'uomo capirà che c'è molto altro, e molto più importante, nella propria vita, anche perchè il sistema attuale dà segnali di collasso così potenti che è difficile capacitarsi di come stia ancora in piedi
Grazie, @ducadiGrumello. Intendevo esattamente questo. E non solo a livello individuale ma anche collettivo, su larga scala.