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Estate 2016, il definitivo tramonto del binomio Agnelli-Mediobanca
Scritto il 31 agosto 2016 by Federico Dezzani

L’estate 2016 è stata scandita da due significativi eventi economici: il definitivo addio degli Agnelli-Elkann all’Italia, con il trasferimento all’estero della sede legale e fiscale di Exor, e la conquista di RCS da parte di Urbano Cairo, a discapito della cordata patrocinata da Mediobanca. È la fine di un epoca, quella del binomio Agnelli-Mediobanca, iniziata negli anni ’80 proprio con la conquista del Corriere della Sera ed entrata in crisi già nei primi anni 2000, con la morte di Enrico Cuccia e la crisi industriale della FIAT. Breve ricostruzione, non ortodossa, del binomio che ha a lungo dettato il bello e cattivo tempo in Italia, secondo gli interessi della finanza (e della massoneria) angloamericana.

L’Avvocato ed “il biondino dagli occhi di ghiaccio”: morti e sepolti

La peggiore crisi vissuta dal Paese dai tempi dell’Unità non poteva che avere ripercussioni anche sugli assetti del capitalismo italiano: cancellato un quarto della base industriale, minata alle fondamenta la solidità dei principali istituti di credito (MPS ed Unicredit in testa), erosa la capacità di generare utili per qualsiasi impresa rivolta al mercato interno, era solo questione di tempo prima che la vera e propria depressione economica sperimentata dall’Italia a partire dal 2009 avesse i suoi effetti anche sul cosiddetto “salotto buono”.

L’estate 2016 può, in questo senso, definirsi come l’epilogo di un lungo processo di decadenza del “grande capitale” italiano, avviato nei primi anni 2000, ed accelerato, sino alle estreme conseguenze, dall’eurocrisi: ci riferiamo alla scomparsa della FIAT e della famiglia Agnelli come figure di primo piano del capitalismo italiano ed all’ormai conclamata marginalità di Mediobanca negli equilibri economici nazionali.

A metà luglio, infatti, Borsa Italiana annuncia che l’offerta dell’editore Urbano Cairo per l’acquisizione del controllo del gruppo RCS ha avuto la meglio su quella del finanziare Andrea Bonomi, sponsorizzata da Mediobanca e da quel che rimane dei “poteri forti” riuniti attorno a via Filodrammatici; a distanza di pochi giorni arriva la notizia che l‘Exor, la cassaforte della famiglia Agnelli-Elkann, lascia l‘Italia, seguendo le sorti delle controllate e trasferendo la sede legale e fiscale in Olanda.

Gli assetti italiani, poggianti per decenni sull’asse Agnelli-Mediobanca, o su quello Avvocato-Cuccia se si sposta l’analisi a livello di persone, sono così stati definitivamente archiviati. L’uscita del Corriere della Sera dall’orbita di Mediobanca, preceduta di qualche mese dal disimpegno azionario degli Agnelli-Elkann, sta lì a certificare il tramonto di un’epoca: è il sigillo apposto su un periodo dell’Italia ormai chiuso.

Corre l’anno 1984 quando la Fiat, guidata da quella Mediobanca con cui gli Agnelli vivono in perfetta simbiosi, diventa l’azionista di riferimento del Corriere della Sera, sottraendolo alla famiglia Rizzoli: l’operazione, paradigmatica per comprendere il modus operandi degli “squali” di via Filodrammatici, passa per il crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, che all’epoca è l’effettivo proprietario del Corriere della Sera, avendo ricevuto in pegno dai Rizzoli l’80% delle azioni del quotidiano a fronte di un finanziamento.

Prima, con lo scandalo della P2 del 1981 (con cui gli angloamericani eliminano un serie di figure economiche e politiche non certo cristalline, ma legate ad interessi nazionali, per sostituirle con semplici esecutori alle direttive atlantiche del calibro di Beniamino Andreatta), si isola Calvi, che si avvale proprio di Licio Gelli ed Umberto Ortolani come intermediari col mondo politico; poi, Calvi scompare misteriosamente a Londra, dove è ritrovato impiccato nel giugno del 1982, sotto il Ponte dei Frati Neri, vittima probabilmente dei servizi segreti inglesi che non gli perdonano il suo appoggio alla giunta militare argentina nella guerra della Malvinas; infine, la morte di Calvi è prontamente sfruttata per il commissariamento straordinario dell’Ambrosiano che, poco dopo (agosto 1982) è dichiarato fallito, nonostante sia una delle banche più patrimonializzate dell’epoca e non mostri alcuna tensione patrimoniale.

Il crack del Banco consente al duo Agnelli-Cuccia di mettere le mani sui gioielli controllati da Calvi, primi fra tutti Toro Assicurazioni ed il Corriere della Sera: il “Nuovo Banco Ambrosiano” chiede il rientro immediato dei prestiti concessi alla famiglia Rizzoli che, nell’impossibilità di pagare, è costretta a cedere nell’autunno del 1984 il controllo alla società Gemina, controllata da Fiat e Mediobanca. Ha così ufficialmente inizio il trentennale predominio della casa torinese e della banca d’affari milanese sull’azionariato di Piazza Solferino.

La convergenza d’interessi tra Agnelli e Cuccia, fulcro dell’economia italiana per decenni, era in un certo senso inevitabile. Inaugurata nella seconda metà degli anni ’70, con la nomina ad amministratore delegato di Cesare Romiti, “l’uomo di Mediobanca” che sposta il focus della casa automobilistica sulla finanza, proprio mentre Volkswagen inizia con la Golf I la sua lunga marcia verso il primato mondiale, l’alleanza tra la Fiat e l’istituto milanese era scritta nelle stelle: le due società erano nate per incontrarsi, piacersi ed unirsi.

Già tiepida verso il regime fascista nonostante le generose commesse militari assegnatele, la Fiat è nell’immediato dopoguerra tra i principali beneficiari del Piano Marshall: il legame tra gli Agnelli e gli USA, retrodatabile al rapporto di stima tra il senatore Giovanni Agnelli ed Henry Ford, si rafforza anno dopo anno e gli americani sono ben lieti di assegnare alla Fiat il ruolo di portabandiera del capitalismo privato, baluardo contro l’invadenza dello Stato-imprenditore che controlla il sistema creditizio (le banche d’interesse nazionale) e buona parte dell’industria di base (l’IRI).

L’amministratore delegato della casa torinese, Vittorio Valletta, è solerte nel ricambiare le attenzioni statunitensi: quando le (sospette) morti di Adriano Olivetti e dell’ingegnere Mario Tchou infliggono un duro colpo al gruppo di Ivrea1, obbligandolo ad entrare nell’orbita di Fiat e Mediobanca, Valletta è veloce nello stroncare sul nascere gli avveniristici progetti dell’Olivetti nel campo dell’informatica, tacciata da Valletta come “un neo da estirpare”, fonte di non poche preoccupazioni per i concorrenti americani ed inglesi.

Simile, e per certi più evidenti ancora, è il legame tra Mediobanca e l’alta finanza di Londra e New York, tradizionale emanazione delle logge massoniche americane ed inglesi (che giocano probabilmente un ruolo di primo piano nell’omicidio del sullodato Roberto Calvi).

“Padre nobile” di Mediobanca, il cui atto costitutivo è datato 1946, può essere considerato Josef Leopold Toeplitz (1866-1938): esponente della finanza cosmopolita, amministratore delegato della Comit (la maggiore holding industriale d’Italia sino alla crisi degli anni ’30 ed alla sua nazionalizzazione), il banchiere di origine polacca alleva alla sua corte Raffaele Mattioli (1895-1973), futuro fondatore di via Filodrammatici, che nel ’33 gli succede alla guida dell’istituto di credito.

Di “sentimenti antifascisti” anche sotto il regime, affiliato come il suo mentore Toeplitz ad ambienti esoterici e massonici (diede disposizioni per essere seppellito presso l’abbazia di Chiaravalle, nella nicchia dove nel Medioevo giacquero i resti dell’eretica Guglielma la Boema2), mente grigia del Partito d’Azione costituito nel 1942, “don Raffaele” è già a Washington nel 1944 per discutere con gli americani dei futuri assetti post-bellici dell’Italia: con i serv
izi segreti americani ed inglesi, Mattioli è, da sempre in contatto, potendo avvalersi di un promettente ed ambizioso giovane, Enrico Cuccia (1907-2000), come intermediario3.

È lecito supporre che nei piani angloamericani per la “ricostruzione” dell’Italia di cui Mattioli è messo al corrente, sia proprio contemplata la costituzione di Mediobanca che, fondata nel 1946 nonostante i dubbi dell’allora governatore di Bankitalia, Luigi Einaudi, rappresenterà la “testa di ponte” della finanza anglofona in un sistema creditizio altrimenti controllato dallo Stato.

Costituita con l’apporto delle tre banche d’interesse nazionali, cioè pubbliche (la Comit di Mattioli, il Credito Italiano ed il Banco di Roma), Mediobanca (definita anche “il tempio” della finanza laica, con chiare allusioni alla sua matrice massonica) è concepita per svolgere il ruolo di trade-union tra l’economia italiana ed il circuito dell’alta finanza inglese e statunitense: aperta ai capitali privati già negli anni ’50, via Filodrammatici è la porta da cui si riaffacciano i grandi nomi della finanza internazionale, come Lazard e Lehman Brothers.

Sebbene Mediobanca nasca come banca d’affari, per il finanziamento cioè a medio-lungo termine delle imprese e per assisterle nello sbarco in borsa, è chiaro come, più che nell’interesse dello sviluppo italiano, agisca in base alle priorità economiche e politiche di Londra, Washington e Parigi, trovando nella Fiat di Gianni Agnelli una solida spalla.

Si è parlato dell’assassinio in fasce dell’informatica Olivetti e del crack, indotto, del Banco Ambrosiano, ma come dimenticare del delitto perpetrato dal binomio Fiat-Mediobanca in un altro settore chiave dell’economia, dove l’Italia è stata a lungo all’avanguardia per poi esserne completamente estromessa, ossia la chimica?

È la seconda metà degli anni ’80 quando Raul Gardini, “il contadino” che si è a lungo mosso sulla scia di via Filodrammatici, acquista, entrando in conflitto con l’ex-mentore Enrico Cuccia, il controllo di Montedison, unendo la società alle attività del gruppo Ferruzzi: nasce il secondo gruppo industriale del Paese, secondo alcuni l’unica autentica multinazionale italiana, attivo nella chimica, nell’agricoltura, nell’alimentare, nel cemento, nella finanza. Gardini è “l’anti-Agnelli” per eccellenza, sogna la benzina verde, è chiamato da Gorbacev per ravvivare l’asfittica agricoltura sovietica.

Tangentopoli, orchestrata da Washington e Londra per spazzare via la vecchia classe dirigente e smantellare l’economia mista contando sull’appoggio del ricattabile PCI-PDS, infligge un durissimo molto al gruppo Ferruzzi, i cui più alti dirigenti finiscono sotto inchiesta. Enrico Cuccia completa l’opera, impartendo l’ordine alle tre banche d’interesse nazionale di chiudere tutte le linee di credito e di rientrare nell’arco di 24 ore di tutti gli affidamenti: la Feruzzi, con un patrimonio più solido della Fiat, è costretta a capitolare e Mediobanca invia due uomini fidati, Guido Rossi ed Enrico Bondi, a gestirne lo smembramento4.

A beneficiare dell’omicidio del secondo polo industriale italiano sono, come nel caso del Banco Ambrosiano, la Fiat di Gianni Agnelli che incamera una consistente quota dell‘Edison, e gli altri protetti di Via Filodrammatici, i Pesenti ed i Ligresti, che acquistano a prezzo di saldo le attività nel cemento (Calcestruzzi ed Heracles) e nelle assicurazioni (Fondiaria). Nel 1993 la Ferruzzi Spa cessa ufficialmente le attività e l’Italia imbocca l’uscita anche dalla chimica.

L’azione predatoria ai danni della Ferruzzi è però anche l’ultima occasione di sintonia tra la Fiat e Mediobanca: la gestione del fedelissimo di via Filodrammatici, Cesare Romiti, incentrata sulla finanza anziché sull’auto, non paga, le quote di mercato in Europa, dove Fiat ha lungo detenuto il primato, si assottigliano pericolosamente, ed in Italia la casa automobilistica paga il prezzo degli inasprimenti fiscali e della contrazione dei consumi che accompagnano il percorso del Paese verso la moneta unica, alleviati soltanto degli incentivi elargiti dallo Stato.

Nel 1998 Romiti lascia la guida della Fiat per raggiunti limiti d’età e la famiglia Agnelli si libera formalmente dall’alleanza-controllo esercitata da Mediobanca: quando nel 2002 l’indebitamento del gruppo torinese raggiunge livelli d’allerta, gli Agnelli si guardano bene dal chiedere il “soccorso” di via Filodrammatici, di cui hanno visto gli effetti col Banco Ambrosiano ed il gruppo Ferruzzi, e si affidano ad una cordata di banche che erogano nel 2002 un prestito convertendo da 3 €mld. Inutili sono gli sforzi di Mediobanca, come ad esempio l’acquisto del 34% della Ferrari ad un prezzo di favore, di riportare la Fiat sotto il suo controllo.

Aver schivato la “cura” di Mediobanca, non evita però agli Agnelli il rapido smantellamento dell’impero, smontato pezzo dopo pezzo: Edison, Avio, Fiat Ferroviaria, Alpitour, Rinascente, San Paolo Imi, etc. etc.

Parallelo, quasi che il destino delle due società fosse indissolubilmente legato, è il declino di Mediobanca: nel 2000 si spegne Enrico Cuccia, “il biondino dagli occhi di ghiaccio” abituato a scrivere a matita, così da poter cancellare e riscrivere a piacimento. Poi, nel 2003, il suo delfino, Vincenzo Maranghi, è estromesso dalla guida dall’istituto e morirà di un male incurabile quattro anni dopo.

Ma è sopratutto il mutato contesto economico a sancire la decadenza di via Filodrammatici: Mediobanca non è più il sole immobile del sistema italiano, il salotto attorno cui ruota l’impresa privata e pubblica, bensì è una semplice (e modesta) banca d’affari che deve galleggiare nei marosi della concorrenza nazionale (le ex-banche d’interesse nazionale, ora privatizzate) ed internazionale (colossi come JP Morgan, Lazard e Goldman Sachs). Mediobanca vive, in sostanza, dei dividendi elargiti dalle partecipate (peraltro in continua dismissione), prime fra tutti Generali, e si “svilisce” alla funzione di semplice banca commerciale, costituendo nel 2008 Che Banca! Circola saltuariamente la voce di una fusione tra via Filodrammatici e Unicredit5, ma si tratterebbe di sommare due debolezze nella speranza (vana) di farne una forza.

Sullo sfondo c’è sempre il Corriere della Sera, per quasi trent’anni alcova dove si è consumato l’amore tra Fiat e Mediobanca. ................

CONTINUA


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