L’eredità del Re ai...
 
Notifiche
Cancella tutti

L’eredità del Re ai tempi della Troika


Rosanna
Famed Member
Registrato: 2 anni fa
Post: 3536
Topic starter  

L’eredità del Re ai tempi della Troika
All’interno delle nuove logiche del mondo globalizzato, mentre gli esecutivi si susseguono rapidamente uno dopo l’altro, il lascito di Napolitano risulta essere il Quirinale come nuovo mediatore stabile con i poteri internazionali.
di Simone Sauza - 20 gennaio 2015

Napolitano non passerà alla storia come il Presidente più amato dagli italiani. Napolitano passerà alla storia come il presidente più amato dai politici. In particolare del centrodestra/sinistra, dai teorici delle larghe intese, dal centrismo come tecnica di governo e dai poteri extranazionali. Sì, perché il grande lascito del Re non è meramente una certa forzatura del ruolo istituzionale. La questione non è solo quella tra un presidente arbitro o un presidente giocatore. Intendiamoci: Napolitano è stato un sovrano che ha forzato continuamente la situazione istituzionale in nome della “stabilità”. Questo è fuori dubbio. Sotto di lui è cominciato un colpo di stato permanente con l’investitura continuativa di non-eletti (Monti, Letta, Renzi). Lo chiamavano governo tecnico, almeno inizialmente: per dare l’impressione della neutralità, dell’automatismo razionale in casi di emergenza; ma di tecnico, come è noto, aveva ben poco, data la radicalità delle scelte politiche (leggasi riforme lacrime e sangue) chiaramente inquadrabili nell’ideologia neoliberale imperante, la quale si auto-impone sempre, con un disinvolto uso orwelliano del linguaggio, come narrazione neutra, di buon senso e moderata. Così come di matrice neoliberale è l’esigenza di accentrare il potere spingendo verso modelli presidenzialisti (carattere fondamentale della maggior parte delle costituzioni post-1990). Eppure, la grande eredità del Re non si riduce a questo. Bisogna essere intellettualmente onesti e capire che tutto ciò non sarebbe stato possibile senza la crisi della democrazia italiana, in special modo dell’organo parlamentare. D’altronde, il Presidente della Repubblica non ha poteri costituzionali per imporsi sul Parlamento. Non può imporre un governo senza la fiducia di esso. Non dispone di nessun potere legislativo per imporre leggi e riforme, né sciogliere le camere senza consultazione con i Presidenti.

Ciò che il regno di George ha mutato profondamente nel corpo vivo della politica italiana, invece, è il ruolo del Quirinale. Attenzione: non all’interno dei confini nazionali, bensì come istituzione mediatrice con il sistema internazionale. In un regime di globalizzazione, la dialettica tra sovranità nazionale ed extra nazionale cambia radicalmente e viene rovesciata. La seconda impera sulla prima. La prima deve agire sulla seconda per operare all’interno dei propri confini. Una volta Palazzo Chigi era il fulcro degli interessi nazionali e delle mire estere. Man mano che vengono desecretate parti degli archivi dei servizi segreti, emergono i disegni politici volti a destabilizzare o ad ostacolare determinati personaggi: dall’amministrazione democratica di Jimmy Carter interessata ad impedire il compromesso storico, individuando nel Vaticano un partner strategico, alla scelta di puntare su Craxi invece che sulla DC – ritenuta inaffidabile a causa delle lotte intestine – come elemento mediatore per la prospettiva anti-comunista e filo-occidentale. Oggi è cambiato tutto. I governi si succedono incessantemente, il Presidente resta. Quattro esecutivi nel giro di pochi anni, un regno di nove anni per Napolitano. In una situazione di instabilità interna di questo tipo, l’interesse da parte dei poteri esteri si rivolge precipuamente al Quirinale come garante della stabilità del sistema su cui è costruita l’UE e su cui sono costruiti i rapporto con i partner esteri. Ormai ogni fenomeno politico interno non può che essere letto alla luce di un’ottica globale. Così, la funzione del Quirinale va inquadrata in un contesto, quello attuale, in cui il dollaro perde radicalmente la sua egemonia; mentre lo yuan cinese comincia ad essere accettato come moneta internazionale di scambio. Come ha spiegato recentemente Aldo Giannuli, all’interno di questo conflitto si inserisce la preoccupazione per l’Euro e la sua instabilità:

“Come terzo incomodo fra i due colossi, c’è l’Euro, una moneta sbagliata che non dovrebbe esistere ed, invece, esiste. Anche l’Euro qui e lì inizia ad essere accettato come moneta di scambio e di riserva e, anche se non ha mai insidiato davvero re dollaro, resta una sorta di minaccia permanente. […]. Non è un mistero che una parte degli americani vedrebbe volentieri sparire questa moneta. Non sono dello stesso parere altri americani che, pur auspicando un ridimensionamento “politico” di questa moneta, non ne vogliono il crollo, temendo un effetto domino. Ma, sia che si voglia far fuori l’Euro, sia che lo si voglia solo ridimensionare (come si fece con lo yen nel 1985), occorre metterci le mani su ed il modo migliore è controllarne il punto debole. E, se la Germania ne è il punto forte, l’Italia ne è il punto debole”.

Da qui nasce l’esigenza di un mediatore di fiducia, che non può essere evidentemente più trovato nella figura del Presidente del Consiglio, ormai ridotto ad intercambiabile esecutore di compiti a casa. D’altronde, la carriera di Napolitano è lì a testimoniare la lenta costruzione di una figura di garante concretizzatosi nel nuovo peso del Quirinale che ora lascia ai posteri. Era il 1978, ad esempio, quando l’ambasciatore statunitense Richard Gardner avviava una serie di colloqui – prima con Mario Pedini (DC, ministro dell’istruzione) e Giovanni Spadolini, e poi con Claudio Signorile, vicesegretario socialista – volti ad individuare elementi mediatori per spingere il PCI verso una svolta progressista e socialdemocratica (sul modello laburista britannico). Sarà proprio Signorile, su indicazione di Craxi, a suggerire Napolitano come elemento chiave per accelerare l’implosione del PCI in favore dell’ottica atlantista [1]. Ma questa è storia. Lo ripetiamo: ai posteri re Giorgio non lascia solamente un operato istituzionale che sfrutta al massimo le potenzialità della Costituzione per forzarla verso assetti presidenzialisti; quanto un Quirinale come nuovo elemento interlocutore chiave del sistema internazionale. Renzi continua a parlare di un nome non politico, vestendo i panni per lui troppo larghi del protagonista; ma la scelta del Quirinale passa ormai attraverso i contatti telefonici di Berlino, Washington e Francoforte; tanto da riportare in auge, tra gli analisti, il nome di Prodi – il quale è rimasto in ottimi rapporti con la Merkel – e su cui persino Berlusconi comincia a mostrare timide aperture.

Non da ultimo, seppur in maniera indiretta, l’eredità di Napolitano riguarda la stessa forma mentis del centrosinistra, che ne esce riplasmata: garantismo (trattativa Stato-Mafia), moderatismo (governi tecnici e mantra della stabilità come scacco all’alternanza politica), larghe intese (patto del Nazareno) sono i tre pilastri interconnessi tramite cui il “nuovo centro” (ricordate il Neue Mitte di Schrödinger), ormai abbandonate persino le timide vesti socialdemocratiche, santifica il paradigma tecnoliberale dominante. D’altronde, in un’intervista dell’amico Scalfari – quello che scrisse un editoriale in cui auspicava la cessione di sovranità in favore della Troika – risalente a questa estate, proprio Napolitano, parafrasando Benedetto Croce, affermava che ormai “non possiamo non dirci liberali”. Dasvidania compagno Georgij.

[1] Cfr. Maurizio Molinari, Governo Ombra. I documenti segreti degli USA sull’Italia degli anni di Piombo, Rizzoli 2012, pp. 167-174

http://www.lintellettualedissidente.it/italia-2/leredita-del-re-ai-tempi-della-troika/


Citazione
Condividi: