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L'indispensabile Severità perduta


GioCo
Noble Member
Registrato: 2 anni fa
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Questo che sto per scrivere è un pezzo per pochi "non eletti", cioè che nella grazia come nella disgrazia si trovano nella condizione nietzschiana di vedere l'oscurità che si addensa, riassunta nella famosa frase: "quando guardi a lungo nell'abisso, l'abisso ti guarda dentro".

Frase emblematica ma che per me ha un significato preciso anche se l'evidenza evidente mi suggerisce che Nietzsche non aveva questa consapevolezza, non perché mi ergo superiore a un simile luminare (ci mancherebbe) ma perché alla fine è finito in manicomio, avendo sbroccato di brutto e (pare) definitivamente, secondo quanti lo conoscevano e gli volevano in qualche modo bene. Quindi era consapevole che l'abisso lo avrebbe portato alla follia ma non fu in grado di evitarlo. La domanda nasce spontanea: perché? Forse ho una risposta, ma è articolata e va soppesata con saggezza. Scusatemi quindi se mi dilungo negli spiegoni, spero solo alleviare un poco le condizioni di chi rischia il burnout (esaurimento emotivo).

L'abisso è il vuoto. Il vuoto (l'ho già scritto in un altro POST) è tutt'altro che "niente". E' ciò che è stato escluso dalla Mente, ma perché sia escluso bisogna prima che la Mente lo consideri. Ad esempio se guardo un albero escludo lo sfondo, il terreno, l'erba, le nuvole, l'aria che respiro e persino la mia persona. Il processo è esattamente quello che orienta l'attenzione. L'attenzione quindi non è il risultato di un movimento muscolare (ad esempio degli occhi) ma di un processo di esclusione interiore e operato nell'immaginazione che deve considerare in via paralinquistica (non verbale e rispetto ciò che sta attorno al linguaggio) l'identità di ciò che ci circonda. Immaginate un bambino che non parla ancora ma indica alla mamma qualcosa con un verso. Non sa come si chiama, la mamma completa la sua informazione dicendo "... albero". Ma il bambino rimane perplesso, dal momento che con lo stesso suono può indicare tutto e per verbalizzare deve escludere prima tutti i suoni che non c'entrano, iniziando a produrli, e poi concentrarsi su quello che ha detto la madre per associarli al fenomeno-oggetto "albero" indicato. Il processo a cui ho dato nome "mutua esclusione" va poi raffinandosi sempre di più e si concentra nel considerare i significati da escludere per ottenere un vocabolario. In questo modo il mondo dei significati che ci circonda e regola le relazioni "di contatto" sensibile (ciò che vediamo, ascoltiamo, tocchiamo, etc.) diviene ciò che (una volta escluso il resto) orienta l'attenzione di conseguenza. Lo stesso processo di mutua esclusione viene presto messo in ombra, anche perché considerarlo ogni volta, rendersene conto mentre lo mettiamo in azione, sarebbe troppo oneroso per la Mente che cerca sempre la via meno dispendiosa per agire.

Ora, tutto ciò che ci manca quindi è una "disciplina della attenzione", cioè rendersi conto del perché certi meccanismi funzionano in modo così bizzarro per tentare di averne un controllo migliore ed evitare di sbroccare. Ad esempio perché per Nietzsche, consapevole del pericolo che correva, non è stato possibile "togliere" l'attenzione dall'abisso fino al burnout? Notiamo a proposito come l'inferno (altro sinonimo dell'abisso) conserva la capacità apparente di attirare l'interesse umano fin dalla più tenera età. L'inferno affascina l'Uomo da generazioni. Quando racconto una fiaba a un bambino, non è il protagonista buono che gli interessa, ma avere una descrizione del Male che lo aggredirà e tanto più è terribile ed oscuro, tanto più sarà difficile per il protagonista affrontarlo, tanto più riesco a caricare il dramma valorizzando l'eroe, tanto più tutto questo "piace" ed è gravido di fascino. Dal drago che nel profondo dell'abisso (di nuovo) aspetta le sue vittime per divorarle, fino al famoso Balrog del Signore degli Anelli di Tolkien, le  icone del profondo catturano l'attenzione dell'osservatore (il pubblico) divertendo, però lo fanno catalizzando l'attenzione verso i luoghi della disperazione. Più cedo alla tentazione di osservare, più l'attenzione si incolla (letteralmente) all'abisso. Nel senso che è sempre più difficile evadere e questa è una delle regole di base di qualsiasi stato d'animo: l'emozione chiama sempre se stessa. Ad esempio, più mi arrabbio, più mi arrabbierò di una rabbia senza controllo.

Però, però, la realtà nuda non è mai divertente. Essere pragmatici significa guardare le cose indesiderabili quando si presentano per quello che sono, senza rifiutarle solo perché brutte. Ci può dispiacere dover rinunciare a quello che desideriamo, ma non tanto quanto dover affrontare ciò che non vogliamo affrontare. Ma noi abbiamo raffinato un meccanismo di esclusione che agisce ben prima dell'intelletto e quindi in un certo senso ne rimaniamo vittime, soprattutto per le cose che non ci piacciono. Semplicemente smettiamo di vederle. Questo accade in certa misura per quelle che invece ci piacciono, ma in casi più di nicchia e facilmente patologici, ad esempio con persone tanto frustrate da non sentirsi all'altezza di meritare niente. Insomma, è come se l'attenzione rimanesse incollata dove capita a prescindere dalla nostra volontà e preferenzialmente nel disagio. Se abbiamo una preoccupazione, generata da una realtà oggettiva come ad esempio essere alla ricerca di soluzioni per pagare delle bollette scadute e doverlo fare con risorse scarse, questo ci obbliga a fare i conti con la difficoltà di staccare l'attenzione e se non riusciamo a farlo per un periodo troppo lungo, possiamo iniziare a manifestare sintomi molto seri come insonnia, stanchezza cronica, immunodepressione e inappetenza. In effetti se il meccanismo è quello descritto di mutua esclusione, non è così immediato capire come affrancarsi da questa condizione.

Ci possiamo arrivare in parte e con molti compromessi. Ad esempio quando decidiamo di ascoltare della musica o fare altre cose che ci possono distrarre come ballare. Ma imparare a gestirsi è forse la cosa più complessa che siamo chiamati a imparare. Un tempo i nostri padri erano ben coscienti della necessità di soppesare con attenzione la resistenza nel guardare l'abisso e di contro sapevano che non era possibile evitarlo. Per ciò erano coscienti che non era una cosa da prendere alla leggera. Ad esempio con le feste di paese cercavano di ricaricare le pile emotive e allo stesso tempo massimizzare le relazioni positive minimizzando quelle negative. Oggi la consapevolezza dell'importanza di gestire l'aspetto emotivo è perduta. Ma è anche peggio di così. Prendiamo l'evento felice (più semplice da analizzare). Noi possiamo avere un evento oggettivo (per esempio incontriamo un potenziale partner con cui condividiamo momenti emotivamente positivi) oppure una situazione di finzione (il @GioCo, uno spettacolo teatrale, un film) che ci diverte. Purtroppo non abbiamo più la disciplina che ci consente di tenere distinta l'oggettività di un evento felice dal momento di finzione facendo spesso una tremenda confusione su cose come godimento e rinuncia e di contro non riusciamo ad evitare il rigetto per l'oggettività di un evento infelice di cui dobbiamo tenere conto (quindi se e quando lo possiamo ignorare). In altre parole l'attenzione è letteralmente sfuggita dal controllo e allo stesso tempo è uscita dai radar dell'educazione, risultato di una pratica della severità che è stata abbandonata. Solo con la severità interiore (appresa fin dalla più tenera età con l'esempio) possiamo imporci di ridirigere l'attenzione a seconda della necessità, imparando come fare per non ledere l'animo, cioè rispettandone i limiti. Ad esempio andare a ballare (se è ciò che ci fa stare bene) sapendo che siamo pieni di guai, non per non affrontarli, ma esattamente all'opposto, per avere le energie emotive necessarie a farlo. Staccare l'attenzione è diventato quindi un problema concreto e molto serio di questi tempi moderni, molto molto pericolosi perché emotivamente appiccicosi. Pensiamo solo alla difficoltà di staccare l'attenzione dalla TV o dal videogame. Addirittura anche solo alzare gli occhi dallo schermo di uno smarphone o di un tablet per dare retta all'interlocutore di turno inizia a diventare un serio problema pedagogico. Con l'incensamento di un rapporto sterile basato sui nuovi dispositivi di intermediazione elettronici che assicurano la distanza, il disastro totale dell'annichilimento del senso sociale è garantito, tanto quanto l'esperimento dell'universo 25.

Il mio suggerimento è di tornare alla saggezza dei padri ridurre la parola e la sua importanza allenando la resistenza e il gesto con la disciplina della severità interiore che non vuole sottomessa la volontà al vuoto e non inneggia alla tristezza (o alla gioia) ma al contrario, scolpisce l'animo (duro) per metterlo in condizione di affrontare sia la gioia che la tristezza, governando gli umori con umiltà e Severità interiore, unica guida affidabile per gestire la bizzarra attenzione di una Mente che mente in continuazione.


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