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Noi e "gli altri" nel racconto


GioCo
Noble Member
Registrato: 2 anni fa
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Sto seguendo diversi corsi di formazione universitari che a vario titolo parlano del racconto, del raccontarsi e del raccontare gli altri. Ho anche scritto una tesi a riguardo, che mette in luce come stare decentrati nel pensiero del nostro prossimo, non è solo una difficoltà concreta, ma un necessario esercizio che ci pone grossi limiti.
Ne uscirò (con giudizio dei docenti) con la lode.
Ma a me non riesce di saperla più che una "scoperta" molto modesta.

A noi va sempre di raccontarci come persone disponibili, preparate (esperti nei contesti degli argomenti che si trattano), generose, forti e resistenti.
Lasciamo perdere il giudizio, non è in questa sede che vorrei trovare colpevoli, ne è mia intenzione giudicare. Semplicemente teniamo presente che solo un depresso può raccontare se stesso come un fallimento e tendenzialmente solo una persona "candida" (nel senso del "Candido, o l'ottimismo" di Voltaire, cioè ironico) non ha bene in mente anche i suoi propri punti deboli (e quindi il modo migliore per mascherarli).

Quindi il nostro pensiero (nella cultura occidentale) è focalizzato sulla necessità di raccontarci (e raccontare di noi) più che altro gli aspetti positivi o comunque di saperci positivi nelle situazioni, nei contesti.
Questo non vuol dire che non ci arrabbiamo, non soffriamo, non abbiamo timore o comunque non consideriamo aspetti negativi del nostro agire, in altre parole non significa che siamo incapaci di autocritica, significa che la sincerità verrebbe comunque vissuta con imbarazzo, apparirebbe disfunzionale a livello sociale, soprattutto nel desiderabile successo.
L'ottimo film "The Invention of Lying" di Ricky Gervais e Matthew Robinson, esplora esattamente questo aspetto delle relazioni personali. La bugia come mediatore emotivo e (quindi) di successo nella società della sincerità.

L'emozione che incide più profondamene, più durevolmente e con maggiore efficacia nella memoria è quella negativa. Questo ha un senso, se pensiamo che il nostro corpo si è adattato a contesti selvatici dove i predatori erano necessariamente nascosti, quando andavano a caccia. Tutto il mondo animale (mammifero) ci parla di un rapporto tra preda e predatore relativo alla caccia e per noi questo è un tema (del corpo biologico) centrale.
La scienza comunque (oltre che la nostra esperienza) conferma anche matematicamente uno sbilancio tra efficacia del ricordo negativo e positivo. Tuttavia l'efficacia non è l'efficienza (che invece è legata al contenimento della dispersione energetica). Quindi la memoria negativa è efficace, quella positiva è efficiente. Ne deriva che nel racconto entrambe queste memorie sono necessarie e devono stare in un "bilancio".

Noi non raccontiamo volentieri delle nostre esperienze negative a meno che non siano in qualche modo "mitizzate", rese capaci di eleggere in qualche misura delle qualità. Fermo restando che se possiamo raccontarle, già significa che le abbiamo superate e questo ci rende in qualche misura "eroi", iscrivendo le nostre storie nel mito e nella leggenda (popolare), cioè nella fiaba, siccome tendiamo a centrare su di noi l'accaduto, il vissuto negativo è di per sé "saputo" negativo e tale rimane per noi, finché non troviamo il coraggio di costruire una attribuzione di significato alternativo, che arricchisca di elementi qualitativamente positivi il nostro racconto. Cioè finché non raggiungeremo la consapevolezza di poterlo raccontare "ad altri".

Il punto centrale del discorso però non è il vissuto individuale emotivo, ma la possibilità di decentrare il pensiero (da se stessi) nell'atto di raccontare. Come pensa il mio prossimo? Qual'è il suo "pensiero"? Come funziona il pensiero?

Questo passaggio mi permette di capire perché dovrei raccontare la mia storia. Se infatti il mio "perché" coincide (come le tessere di un puzzle) con il perché dell'altro, allora nasce la fiaba.
Tutti noi abbiamo la ricchezza di un vissuto fatto di esperienze negative, un po' perchè la modernità e tutt'altro che rassicurante, un po' perchè naturalmente filtriamo le esperienze negative e le sedimentiamo in noi e nei racconti che costruiscono la nostra identità.

Ma come faccio a sapere cosa pensa l'altro? La curiosità di sapere come pensa l'altro parte dall'idea che il pensiero centrato su di me gioca nella mia esperienza individuale la parte del tiranno, nell'esatta misura in cui vivo emotivamente l'esperienza in modo negativo. In altre parole, più mi abita l'emozione negativa, meno spazio sarò disponibile a dare alla differenza di pensiero che è proprio dell'altro. A un certo punto sarò obbligato (dalla mia emozione negativa in crescita, non dal contesto "oggettivo") a chiudere ogni significato che sto dando alla situazione su me stesso. Quindi non posso "aprire" mentre vivo un emozione negativa, ma già anche solo "ricordare" quella esperienza negativa significa rievocare l'emozione. Quindi?

La possibilità di ignorare l'emozione negativa, di deviarla, di gestirla nel contesto dove si produce, è totalmente inscritta in un esercizio, un allenamento disciplinato a stare nella situazione per noi difficile. La situazione che già nelle premesse è quella da cui tendiamo a fuggire, ma che non ci lascia in pace, perchè la fuga non è praticabile sempre, pur rimanendo una buona tecnica per gestire certe situazioni per noi difficili.
Noi come civiltà non diamo minimamente importanza all'allenamento emotivo, non stiamo facendo nessun ragionamento che ci permetta di stare nelle situazioni difficili, non dico poco o tanto, ma anche solo a monte non abbiamo nessun pensiero educativo a riguardo.

Senza questo allenamento è impossibile uscire dalle gabbie costrittive della involuzione rapida emotiva che ci obbliga a centrare ogni racconto su noi stessi, costruendo quindi quasi certamente un disastro, individuale, sociale, ma anche Umano.


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PietroGE
Famed Member
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Ma è vero che l'io che si sa essere la propria persona e l'io che si presenta 'in società' agli altri mediante racconto sono due persone differenti? Questo presuppone una conoscenza di se stessi che ha la parte dell'umanità capace di guardare dentro di sé e prendere coscienza dei punti deboli e dei punti di forza del proprio carattere. Il resto però conosce quello che presenta agli altri di se stesso, 'è' solo la personalità sociale, anche senza arrivare agli estremi di un Zelig.


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cedric
Noble Member
Registrato: 2 anni fa
Post: 1697
 

Un approccio di indagine potrebbe essere quello dell'interrogarsi sulla "finalità" del racconto o del raccontarci. Perchè lo facciamo e cosa ci prefiggiamo?

Per il fine "persuasivo" occorre necessariamente mettersi nella testa dell'altro per parlare col suo linguaggio e suscitare le sue emozioni. Persuadere vuol dire anche convincerlo a pagare (non necessariamente in danaro) per accedere ai racconti, quindi occorre a maggior ragione entrare nel suo benvolere creando una adeguata empatia. Per il fine"autocelebrativo" l'autore deve avere di suo quattrini o spazi per narrarsi visto che non è interessato a farsi approvare o accettare. In tal caso la vanità e l'egocentrismo e quindi le proprie emozioni sono il motore di tutto.

Quindi chi sarà il l'utilizzatore finale del nostro racconto e del raccontarsi, gli altri o noi medesimi?


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ignorans
Reputable Member
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Post: 305
 

In altre parole, più mi abita l'emozione negativa, meno spazio sarò disponibile a dare alla differenza di pensiero che è proprio dell'altro

Mah, questo è molto opinabile. Penso alla persona eccitata, tronfia, piena di sé, con un grosso ego..... Non mi sembra "negativa" e neppure disposta ad ascoltare "l'altro"


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comedonchisciotte
Honorable Member
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Post: 634
 

Il discorso di GioCo è complesso e in alcuni punti discutibile, ma queste sarebbero minuzie.
Ciò che mi sembra più importante è che "il racconto" che lui sembra considerare è il racconto "serio", che potrebbe anche essere "serioso".
Al di fuori del serio ci sono tutte le sfumature dell'umorismo, che può consentire di mettere in ridicolo se stessi senza cadere nel masochismo. Insomma può esistere un discorso umoristico, in cui non ci si prende troppo sul serio e si possono raccontare verità profonde. Chiaramente sto parlando dell'umorismo, non della satira, la quale si rivolge verso gli altri.
Scrive più volte Carofiglio nelle sue narrazioni (romanzi, racconti) "l'umorismo è una qualità etica". Approvo.


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GioCo
Noble Member
Registrato: 2 anni fa
Post: 2205
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Grazie di cuore (non scherzo) per i vostri commenti, tutti molto "ricchi", pensati e quindi belli. Devo scusarmi perché nella necessità di stare nel coinciso, forse ho saltato brani che avrebbero chiarito meglio il pezzo: a quale racconto mi riferisco. Brevemente: mi riferisco al puro atto di trasformazione dell'esperienza in parole (descrivendo). L'esperienza nostra, ma anche quella dell'altro (vissuta). Sia richiesta che "spontanea", sia interiore che sociale, sia "vera" che falsa (o falsata).

@ottavino cogli in parte la conclusione, ma forse sfuggono alcuni passaggi (importanti). La teoria a cui mi riferisco è quella di Amos Tversky che suggerisce come le scelte compiute si basino più su un giudizio di valore che un approccio razionale. Questo poi si traduce nel ricordare meglio e con più persistenza esperienze negative piuttosto che quelle positive, nel guidare le scelte (ci dice Tversky). Io aggiungo che una persona che ci fa disperare con cui siamo costretti a misurarci, ad esempio in ambiente di lavoro, non lo ricorderemo certo con l'idea che è disponibile a verbalizzare (=raccontare) gran che. Siamo cioè indotti a rispondere più con schemi "attacco-fuga" che a ragionare pacatamente nelle situazioni emotivamente difficili. Per quanto riguarda le categorie "negativo" o "positivo" riferito alle emozioni, non intendo quelle che ti fanno sentire "bene" o "male", altrimenti anche il pluriomicida potrebbe avere emozioni positive quando agisce per uccidere. Intendo le emozioni che pilotano comportamenti indesiderabili. Una persona "eccitata, tronfia, piena di sé" non necessariamente si comporta in modo indesiderabile (per se e per gli altri). Quindi anche emozioni etichettate positivamente potrebbero ricadere nel negativo. Se sei un genitore troppo protettivo, ami di certo tuo figlio, ma forse questo non si traduce in comportamenti desiderabili (in primo luogo per il bambino).

@cedric non ho molto da aggiungere al tuo commento. Mi limito a raccogliere e ringraziare.

@PietroGE fai una splendida domanda. Ma credo di cogliere la difficoltà che indichi. Quindi pur senza oppormi al tuo ragionamento, proverei a metterne uno a fianco differente. Credo effettivamente che sia complesso parlare di "io" molteplici, ma non che si possa dire (più superficialmente) che possiamo centrare o decentrare un discorso, banalmente perché l'attrezzatura (il mezzo della parola) nella nostra lingua contiene dei pronomi che si riferiscono a noi e agli altri. "Se" siamo in grado di capire il concetto di "io" e distinguerlo dall'altro (ed è un "se" che riguarda l'applicazione pratica nel mettere in parole un racconto e non altro) allora possiamo avvalerci di descrizioni decentrate. Cioè possiamo raccontare e raccontarci. Questo ha un potere enorme su di noi, ma anche sugli altri. Non credo che ne siamo consapevoli. Per quanto mi riguarda avanzo un ipotesi che connette l'emotività con quel semplice atto di trasformazione dell'esperienza in parole.


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