Nel pomeriggio del 5 maggio 1972 a Pisa il giovane anarchico Franco Serantini veniva selvaggiamente picchiato da poliziotti del reparto celere durante una manifestazione che Lotta Continua aveva indetto come protesta contro un comizio elettorale del senatore fascista Niccolai. Il giovane, ventenne, veniva portato prima nella caserma della polizia e poi nel locale carcere Don Bosco: probabilmente i maltrattamenti e le botte continuarono per ore. Il mattino dopo egli si presentava dinnanzi al PM in condizioni visibilmente compromesse per il rituale interrogatorio e poi veniva riportato in carcere.

Inutilmente il difensore (d’ufficio, chiamato dalla Procura) insistette perché fosse portato nel Centro Clinico del carcere: così non fu ed egli morì nella notte fra il 6 e il 7 maggio per un ematoma (non l’unico) alla testa, dopo un’agonia di quasi 36 ore, in cui nessuno si premurò di constatare lo stato in cui versava e prestargli le cure necessarie. Anzi, alla rituale visita di ingresso in carcere si adombrava che le ecchimosi e gli ematomi potesse esserseli causati volontariamente. Nella sua morte si rinvengono non solo responsabilità di chi lo picchiò selvaggiamente, ma anche quelle di chi come il PM, il dottore del carcere e gli stessi secondini, nei loro vari gradi, non mosse un dito per salvarlo. Tutte le istituzioni vi furono coinvolte.

Tutta la storia di Serantini, dei tentativi variegati di insabbiare le indagini, che alla fine infatti si conclusero tre anni dopo con un non doversi procedere, è stata mirabilmente narrata in due libri: uno famosissimo, Il Sovversivo, di Corrado Stajano del 1975 ed un altro, dello storico Michele Battini, “Andai perché ci si crede”, uscito recentemente per i tipi di Sellerio. Ad essi rimandiamo perché sono ambedue bellissimi e precisissimi. Qui intendiamo indagare come negli anni ’ 70 sia potuto accadere che un giovane morisse in carcere e nessuno pagasse, anzi, che le indagini fossero continuamente depistate, anche attraverso lo strumento della avocazione. E perché, invece, nel caso Cucchi si sia, sia pure con tempi molto lunghi, arrivati a ricostruire le responsabilità non solo di chi materialmente colpì a morte il giovane, ma anche di chi tentò di coprire tali responsabilità. E Cucchi, ormai, per fortuna, non è un caso isolato.

C’è anche Aldovrandi e numerosi altri, compreso i responsabili delle mattanze nelle carceri di S. Gemignano, Modena e S. Maria Capua Vetere. Insomma, lo Stato sembra giunto a “processare se’ stesso”, sia pure ancora con mille cautele, talora doverose e talaltra francamente eccessive. In realtà, anche nel caso Serantini, forse per la prima volta, si giunse assai vicini alla verità. Fu quando si passò dall’istruttoria sommaria, in mano al PM (e dunque soggetta a possibile avocazione da parte del PG) a quella formale, in mano al giudice istruttore. Nel caso del povero anarchico, caso volle che l’istruttoria andasse in mano ad un giudice abile ed integerrimo, Paolo Funaioli, fra i fondatori di Magistratura Democratica.

Sembra doveroso, questo accenno a Magistratura Democratica perché, appena fondata, essa contribuì a disvelare i meccanismi di un’assoluta e imprescindibile autodifesa dello Stato, e ciò era vero soprattutto a Pisa dove essa era forte di un certo numero di soci fondatori, tutti molto preparati e agguerriti. Funaioli fu un inceppo per chi voleva affossare la verità: non ce la fece a rinviare a giudizio i responsabili, ma almeno contribuì a quella che poi è diventata la verità storica: Serantini fu pestato a morte al momento dell’arresto e forse anche dopo e comunque nessuno gli prestò le cure necessarie per, forse, salvarlo. Questo giudice istruttore fu dunque un granello (importante e significativo) che si oppose, pur senza successo, a che il silenzio calasse sin da subito su quello scempio.

Credo che in tutti i casi citati sia stato necessario che ci fosse un granello che ha inceppato i meccanismi di “autoassoluzione necessaria” da parte dello Stato: è stato così cinquant’anni fa per Serantini, ma è stato così anche per il caso Cucchi. Il granello può essere un giudice, oppure un funzionario dello Stato (responsabile o testimone), un consulente tecnico preparato e non al servizio delle procure, assieme ad una opinione pubblica sempre più vigile e consapevole, alimentata da possibili ricostruzioni alternative rispetto alla vulgata affermata dallo Stato e dai suoi apparati.

In questi cinquant’anni che ci separano dalla morte di Serantini, la prima volta che si sono affermate le inequivocabili responsabilità delle forze dell’ordine, è stato a proposito dei fatti di Genova del G8 del 2001: ci sono voluti anni ed anni di indagini, si è dovuto trovare dei PM incredibilmente onesti e tenaci nel prospettare possibili responsabilità, appoggiati da un’opinione pubblica che è diventata sempre più consapevole che alla Diaz e a Bolzaneto i rappresentanti dello Stato avevano commesso crimini feroci. Temporalmente Genova si colloca a metà strada fra Serantini e Cucchi.

Dopo Genova (o meglio, dopo le indagini e i processi di Genova) la strada è diventata un po’ più facile. E’ possibile riconoscere responsabilità di chi ha commesso il reato e di chi non avrebbe voluto che il reo fosse individuato, poiché appartenente allo stato. Ma anche con riferimento ai fatti di Genova non fu così per l’uccisione di Carlo Giuliani. Insomma, il paragone fra quanto accadde a Pisa nel maggio 1972 e quanto accade oggi in tema di responsabilità di rappresentanti dello Stato induce a ritenere che oggi sia più facile costruire, sia pure faticosamente, un’opinione pubblica che chieda in maniera forte indagini non inquinate e trovare quei “granelli” che inceppano o si oppongono alla volontà di scansare sempre e comunque le responsabilità dello Stato quando abbia in mano un cittadino così che si determini un’incrinatura e possibilmente una rottura della compattezza precedente.